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I tormenti di El Greco pittore (in)compreso

Ai suoi tempi litigò con i Farnese e Filippo II. Nel Novecento entusiasmò gli avanguardisti

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Doménikos Theotokópoulos, nato a Creta nel 1541 e morto a Toledo, nel cuore della Spagna, nel 1614, meglio noto come El Greco, è stato, per dirla con Vittorio Sgarbi, «un visionario che trascende il tempo, un contemporaneo di cui è difficile dire che visse negli anni di Caravaggio, un artista che parte da un'isola greca e arriva a Francis Bacon». Il sottosegretario alla Cultura lo dice prima di visitare l'ampia esposizione, la prima a Milano, dedicata al grande pittore. Al piano nobile di Palazzo Reale, da oggi e fino all'11 febbraio, possiamo ammirare quarantun opere del maestro cretese, con alcuni efficaci confronti (Tiziano, Correggio, Tintoretto, Jacopo da Bassano). Le perle esposte: San Martino e il mendicante e il Laocoonte dalla National Gallery di Washington, il Ritratto di Jeronimo De Cevallos dal Prado, le due Annunciazioni dal Thyssen-Bornemisza di Madrid, il San Giovanni e il San Francesco dagli Uffizi, il Trittico dalle Gallerie Estensi di Modena. Ci si muove in un allestimentos candito in cinque sezioni, che parte dagli esordi come pittore di icone sull'isola natia e ci accompagna nel peregrinare di quest'uomo dotto, probabilmente cattolico e smanioso di far fortuna, che a 26 anni salpa per la Serenissima dove vede (e forse conosce di persona, chissà) Tiziano. Dai veneti apprende l'uso del colore e della luce, ma sul mercato della Laguna c'è poco spazio per uno come lui e allora se ne va a Roma, lavora come miniaturista dai Farnese, poi qualcosa va storto: nel 1577 lo troviamo in Spagna dove amici comuni gli presentano Filippo II che in quel periodo sta erigendo l'Escorial e chiamando a raccolta i migliori artisti in circolazione nel segno della Controriforma ma, anche questa volta, sorgono incomprensioni. El Greco è troppo stravagante per uno come Filippo. A Toledo, dove l'artista si rifugia, la svolta: «Qui da bravo pittore diventa un genio», ci dice Mila Ortiz, al coordinamento scientifico della mostra curata da Juan Antonio Garcia Castro, Palma Martinez-Burgos Garcia e Thomas Clement Salomon (il catalogo è edito da Skira). Nelle confraternite El Greco trova i suoi mecenati più fedeli, e non fa sconti: «Consapevole del proprio valore, teneva prezzi alti: è stato il primo artista a rivendicare il ruolo di intellettuale», spiega Ortiz. La sua cifra stilistica? I ritratti psicologici, con i gesti che dicono più di mille parole (osservare le unghie delle mani: sembrano laccate di fresco), la prospettiva esasperata, i colori acidi, da pop-espressionista ante literam. Osservando le opere in mostra, dai primi lavori passando alla pittura durante il viaggio in Italia sino agli ultimi dipinti, che reinterpretano in modo nuovo le icone bizantine, El Greco sorprende per modernità. Chi altro era in grado, a quel tempo, anche solo di concepire visioni talmente infuocate e una realtà su tela da sembrare a noi, oggi, figli Zygmunt Bauman davvero liquida?

Pittore dalle costruzioni audaci, con quei personaggi allampanati che un'infondata leggenda vuole essere figli dell'astigmatismo, El Greco (il soprannome gli venne affibbiato a Roma e gli restò incollato per sempre) è capace di rappresentare l'irrappresentabile: non stupisce che tanti grandi del Novecento, su tutti Picasso, lo abbiano adorato e considerato protocubista. Il merito di questa mostra milanese sta nel valorizzare l'influenza sulla sua arte dei maestri italiani, modelli che si impressero a tal punto nella mente da accompagnarlo per tutta la vita.

L'aver poi messo le opere di El Greco alla nostra altezza, abbassando tele pensate per volte altissime, permette di ammirarne meglio la tecnica, di osservarne la firma sempre orgogliosamente presente, di coglierne la capacità di declinare la lezione italiana con la bidimensionalità bizantina per creare, una volta giunto in Spagna, qualcosa di mai visto prima, ossia una pittura devozionale visionaria, quasi allucinata.

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