Chi è il leader del partito repubblicano? Provate a chiederlo a un americano qualunque. Quasi certamente farfuglierà nomi a casaccio. Non sa, e forse non saprà mai che anche la destra americana è guidata da un uomo di colore. Si chiama Michael Steel e sembra una persona perbene, ma contrariamente a Barack Obama non fa notizia. Semmai produce l’effetto opposto: non appena appare in tv, tra i telespettatori prevale la voglia di cambiare canale, tanto è noioso, insapore e per di più portato a commettere gaffe.
Il problema è che i repubblicani si scoprono drammaticamente privi di figure di rilievo. Finita l’era Bush, bruciato John McCain, eliminati in malo modo Rudolph Giuliani e Mitt Romney, i conservatori sono guidati al Senato da Mitch McConnell e alla Camera da John Boehner, due volti arcinoti, mentre dalle retrovie non emerge nessun giovane, a parte Sarah Palin, che sogna ancora di candidarsi alle presidenziali del 2012, ma con poche chance di successo.
Eppure la destra non è mai stata così vivace come negli ultimi mesi. Un’esplosione di iniziative, polemiche, marce, denunce, che ha eclissato per settimane il principe della comunicazione, Barack Obama. Ma il merito non è del partito, bensì dei media conservatori che hanno occupato il vuoto lasciato dalla politica. Steel è un enigma, ma se dici Rush Limbaugh o Glenn Beck, tutti li conoscono. Amati o odiati, mai indifferenti e sempre temuti.
Il loro successo segna, secondo alcuni commentatori, un nuovo paradigma della società della comunicazione, che appare sempre più lontana da quella della conoscenza e tradisce di giorno in giorno la cultura civica, incentrata sul rispetto delle opinioni altrui che abbiamo sovente invidiato all’America.
Glenn Beck conduce ogni giorno uno show sulla rete televisiva Fox News, segnalandosi per aggressività, populismo e una buona dose di insulti. Negli Usa le querele per diffamazione sono quasi impossibili e dunque la stampa può essere più spregiudicata e i commentatori ne approfittano alla grande, sommergendo la Casa Bianca, il partito democratico, gli odiati progressisti sotto una valanga di attacchi, spesso gratuiti, raramente argomentati, ma molto emotivi, ben interpretati, aggressivi, sprezzanti. Guardando i loro show la gente non si annoia mai, come dimostra l’audience altissima.
È stato Glenn Beck a spingere alle dimissioni il consigliere presidenziale Jones, accusato di aver espresso opinioni cospirazioniste sull’11 settembre. È ancora lui a promuovere la marcia su Washington contro la riforma sanitaria o a dare visibilità a un altro movimento, il Tea Party, che contesta il «neostatalismo di Obama».
E Beck non è solo. L’altra star del giornalismo conservatore americano, Rush Limbaugh, in video appare occasionalmente, ma in radio è sempre presente. Ogni giorno, a mezzogiorno in punto, la sua voce roca e graffiante entra nelle case degli americani, alimentando la rabbia del popolo di destra contro «la deriva dei libera» ovvero dei progressisti. È arrivato ad augurarsi in diretta il fallimento di Obama, ha inventato la parodia, ai limiti del razzismo, su «Barack, il negro magico»; l’anno scorso invitò i suoi fan a iscriversi ad alcune primarie democratiche per sabotare la candidatura dell’odiatissima Hillary. Ogni campagna da lui promossa incontra un successo istantaneo, al punto che qualche settimana fa il Capo di Gabinetto Rahm Emanuel, lo ha definito il «vero leader dell’opposizione». E quando il presidente del partito Steel ha osato criticarlo definendolo «incendiario», la rivolta dei fan di Limbaugh è stata così veemente da costringerlo a scusarsi pubblicamente.
Il fronte è alimentato anche dalla bella e nevrotica Ann Coulter, arcigna polemista su giornali e ospite abituale dei talk show televisivi, e dall’intramontabile anchorman Bill O’Reilly e dall’emergente Michelle Malkin. Occupano gli spazi, imbarazzano la sinistra. A destra il potere è loro.
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