Le imboscate degli amici per fare cadere Romano E intanto lui si appisolava

Due nuovi libri, scritti da autori di sinistra, svelano i complotti interni al governo dell’Unione. «Il premier? Bofonchiava e dormiva»

Il grido di dolore fu quello che eruppe dal cuore lacerato di Clemente Mastella all’indomani dell’orgogliosa esternazione di Walter Veltroni: «Quale che sia il sistema elettorale, la prossima volta alle urne il Pd si presenterà con le sue liste». La presidenza del Consiglio Prodi stringeva i denti da venti mesi, forte, si fa per dire, solo dei suoi 101 fra ministri, vice-ministri e sottosegretari e di un’alleanza talmente eterogenea che ne faceva più una casa per malattie mentali che un governo, e ora il neo-leader del più importante partito alleato se ne usciva dicendo in sostanza «tana libera tutti. Ognuno da adesso gioca per sé»... L’uomo di Ceppaloni fu tacitiano, rispetto alla sua normale e un po’ arruffata eloquenza: «Se mi vogliono fare il culo, ve lo faccio prima io». In realtà la sodomia fu duplice, un dare e un prendere, ma questa è un’altra storia.
Due libri, Fine corsa. Le sinistre italiane dal governo al suicidio (Garzanti editore) e Eutanasia della sinistra (Fazi editore) ripercorrono oggi la storia dell’ultimo governo repubblicano in cui la sinistra stessa ebbe un ruolo e un significato e il senso di mestizia che li avvolge dà un’idea del peso della sconfitta e della difficoltà di una riscossa. Affidato il primo alla penna di Rodolfo Brancoli, giornalista di lungo corso, già direttore del Tg1 e consigliere di Romano Prodi, e il secondo a quella di Riccardo Barenghi, già direttore del Manifesto e oggi a La Stampa, si differenziano nello stile, ma non nella tesi di fondo: una leadership debole, un’alleanza rissosa e sterile, molta presunzione, scarsa intelligenza.
Prigioniero della sua stessa coalizione («i partiti mi hanno imposto anche i nomi» dirà sconsolato a chi gli rimproverava un esecutivo monstre), Prodi è un presidente che si convince di essere indispensabile perché si illude di essere insostituibile. Non ha fatto i conti con le tendenze autolesioniste del suo stesso schieramento, né con il velleitarismo di chi gioca alla grande politica, ma non tiene conto della realtà effettuale delle cose. L’allora presidente di Confindustria Luca Cordero di Montezemolo ne traccia un ritratto inquietante: «Non lo capisco e anzi devo dire che proprio non mi convince». Lo trova «provinciale, succube, fragile», preoccupato solo delle beghe del governo. «Certe volte nel bel mezzo di un incontro chiudeva gli occhi e stava lì, fermo, sembrava quasi che dormisse».
Sul sonno della ragione, che come è noto provoca mostri, il giudizio dell’illustre, come dire, esponente del capitalismo fa il paio con quello di un significativo esponente di ciò che resta del comunismo. Dirà il segretario di Rifondazione Franco Giordano: «Eravamo tutti lì a Palazzo Chigi, una riunione tesa, si rischiava la rottura e la crisi di governo, e lui non parlava, chiudeva gli occhi, forse dormiva. Ogni tanto tornava in sé, e diceva qualcosa, ma io non ho capito una parola. Bofonchiava, borbottava, biascicava e poi, di nuovo, chiudeva gli occhi e cadeva nel suo torpore».
Non occorreva una cattedra in scienza della politica per capire la debolezza di Prodi come leader in generale, della sinistra in particolare, e del resto la sua vittoria nel ’96 era stata più l’effetto delle carenze altrui che di una forza propria. Fa sorridere il giudizio di un D’Alema che, al secondo governo Prodi in crisi terminale, osserva: «Ci vorrebbe uno scatto, ci vorrebbe insomma un leader della coalizione». C’è Prodi, gli replica il suo interlocutore. «Sì, appunto, c’è Prodi, invece ci vorrebbe un leader».
Fa sorridere perché all’indomani della liquidazione definitiva di ciò che del Pci era finito nei Ds, nell’Ulivo e insomma in come diavolo si chiamava quella Cosa lì, Il Manifesto pubblicò una foto di D’Alema e Veltroni da giovani con sopra il titolo «Facevamo schifo», sintesi efficace per quel continuo cambiar di nome, di simboli e prodigarsi di auto-critiche sul passato sempre più penose in quanto ipocrite e in malafede. Veltroni protestò, non per il titolo, per l’accoppiata: «Perché mi avete messo insieme a quello lì?». Quello lì, appunto D’Alema, era lo stesso che più o meno nel medesimo periodo avrebbe definito Veltroni e Prodi «due flaccidi imbroglioni»...
Si dirà: le rivalità fanno parte della storia dei leader come dei partiti politici... Ma qui c’è di più, c’è una sinistra che nella sua ansia di modernizzazione ha perso il contatto con la propria ragion d’essere: ha scelto il Palazzo da un lato, l’elitismo ideologico-intellettuale dall’altro e non riesce più a spiegarsi al Paese e a spiegare il Paese a se stessa. Viene in mente Bertolt Brecht: «Se il Popolo non capisce le proposte del Partito, allora cambiamo il Popolo». Nell’attesa il Popolo ha deciso di fare a meno della sinistra.
Prodi in fondo, non è nemmeno il peggiore, anche e soprattutto perché si trattava di una foglia di fico grazie alla quale la sinistra si illudeva di far maturare le proprie pudenda. Ma quali, ma chi? Su Bertinotti conviene stendere un velo: intelligente, certo, simpatico, come no, per molti versi affascinante, ma, per dirla ancora con D’Alema, «di politica, francamente, non capisce un cazzo». Il narcisismo come malattia infantile del comunismo gli deve molto, così come deve molto ai Diliberto, ai Pecoraro Scanio, macchiette che confondono l’esternazione continua con l’aver qualcosa da dire...
Ma i Veltroni, i D’Alema, gli eterni dioscuri in attesa di un cambio generazionale che si guardano bene dal favorire? Del primo, al di là della furbizia un po’ melensa dell’Africa, delle favelas latino-americane e del fatto che, forse, Dio è malato, allo stato dei fatti rimane l’alleanza con di Pietro, cinica, strumentale, alla resa dei conti masochista, una campagna elettorale all’insegna del «chi vince governa, nessuna scomunica dell’avversario» e ora petizioni popolari per «salvare l’Italia» dalla sindrome peronista-berlusconiana... Se non è ridicolo, è patetico.
Resta, ancora e sempre, il «Líder Maximo». Ma anche qui l’impressione è che i bravissimi professionisti della politica come lui abbiano scambiato la gestione degli affari correnti per la politica in quanto tale.

E poi sono sempre lì in attesa del passo falso altrui, assomigliano al boia che accompagna il condannato a morte al patibolo e poi ne raccoglie, con un sospiro, la testa in un paniere, come a dire: «Cosa potevo fare, lo sapevo che sarebbe andata a finire così». Prima o poi su quel ceppo ci metterà anche la sua, per distrazione, per stanchezza, per costrizione. La storia della sinistra oggi è anche questa cosa qui, tante decapitazioni senza capo (né coda).

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