«Fini è uguale a Calimero, sotto sotto è rimasto nero» ringhiava il Senatùr anni fa, quando Fini per la Lega era ancora il fascista da tenere alla larga perché «i fascisti di Fini li attaccheremo sempre, li teniamo sotto il tiro del nostro Winchester». Armi leggere del famigerato arsenale di Bossi, a cui rispondeva l’altro con uguale repulsione: «Lasciatelo sparare con la sua pistola scarica, povero Bossi, una risata ti seppellirà». Ecco, da quel Fini postmissino, fresco componente «sdoganato» (come si usava dire) del Polo delle Libertà, al nuovo Fini progressista e multiculturale, sembra passato un secolo, ma la distanza galattica dal leghismo viscerale alla Bossi e dalla pancia padana su immigrazione, tricolore e Roma ladrona, quella sembra non passare mai.
Saranno anche cointestatari di una legge che porta i loro nomi, ma Bossi e Fini, specie sul tema ormai più caro all’illuminista Gianfranco, la cittadinanza dei «diversamente italiani», restano alleati per conto terzi, mondi diversi tenuti miracolosamente insieme (per anni...) da un collante chiamato Silvio Berlusconi, ma sempre pronti a beccarsi come due comari. Senza di lui avrebbero continuato a litigare come fanno sempre, come fanno in questi giorni, anche a male parole, sulla questione degli immigrati, messi da Fini nel presepe di Natale per dare una lezione di civiltà agli «stronzi» che la pensano diversamente. Parlava forse dei leghisti? C’è poco da dubitarne. Il turpiloquio però non è elemento nuovo nella dialettica tra i due, specie quando Fini portava ancora gli occhiali a goccia e aveva nel suo pantheon John Wayne e Almirante, non De Gasperi, Karl Popper e Lucio Caracciolo di Limes. Bossi a Fini nel 1999: «Chiacchierone, falso e guerrafondaio. Studia somaro». Fini a Bossi poco dopo: «Sei un fenomeno da baraccone». Roba così, scaramucce tra due tipi un po’ irascibili che poi alla fine facevano pace come i cowboy dopo la scazzottata. È che vanno sempre in direzioni contrarie, ma gli tocca andarci in groppa allo stesso cavallo: ecco la fonte dell’eterna guerriglia Bossi-Fini. Mentre uno invitava a usare la bandiera italiana per scopi igienici, l’altro aveva il tricolore nel simbolo del suo partito. «La Lega difende un’identità padana che non esiste, se non nella stanca propaganda di Bossi» ripeteva Fini solo due anni fa. È un vecchio motivo di scontro, che raggiunse l’apice nel 1994, dopo il cosiddetto «ribaltone» della Lega nord. Allora venne fuori tutta la bile, senza più schermi e paraventi. Fini giurò che non avrebbe più preso neppure un caffè con Bossi, e il Senatùr per converso si scoprì partigiano: «Fascisti attenti, siamo i figli di quelli che vi hanno cacciato dal Nord e se necessario passeremo di casa in casa a cercarvi». O anche: «Ceto medio apri le orecchie, via il cerume! Fini è il massimo disordine per il Paese: non si riforma in modo democratico questo Stato partendo da questa destra». Da Fini erano bordate dello stesso calibro: «Bossi? Un personaggio detestabile, protervo, ignorante. A me non è mai andato giù, ci vedevamo certo, ma di lui non mi sono mai fidato. Bossi mette in giro veleni. Sa chi è molto interessato al movimento razzista e secessionista leghista? I circoli nazionalisti di Monaco che si rifanno agli ideali nazisti». Una volta, nel ’98, Bossi fu intercettato mentre parlava di riforme e artiglieria, con accenni anche a Fini, e il leader di An fu costretto a mostrare i muscoli per ringalluzzire i suoi: «Lo sapete che giudizio do dell’uomo. Bossi usa un linguaggio da impotente, sembra uno di quelli che si eccitano con le “chat line”. E lui si eccita dicendo al telefono delle cose che poi finiscono sui giornali».
Complici gli anni che passano e temperano gli animi, la malattia di Bossi, la conversione ecumenica di Fini, l’età e tutto il resto, tra i due i colpi bassi sono via via sfumati, rimangono però le frizioni, frequenti, particolarmente quando si toccano i temi caldi per l’elettorato leghista, guardacaso proprio gli stessi temi della «rinascita» culturale di Gianfranco Fini, tipo l’immigrazione, la xenofobia, la cittadinanza e via dicendo.
L’ex leader di An dice che negare i diritti agli stranieri è «un suicidio della ragione, non solo della pietà cristiana», e Bossi subito lo raddrizza: «Diritti agli immigrati? Sì ma a casa loro». Cane e gatto, eppure alleati. Anche se a Bossi è più cara un’altra metafora, sempre di natura felina: «Io e Silvio siamo come Titti. Battiamo sempre gatto Silvestro...».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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