Le imprese soffocate dall’invasione cinese

Sette settembre 2004: Edoardo Nesi e i suoi parenti vendono l’azienda di famiglia. Il lanificio fondato nel lontano 1926 è appartenuto alla sua «gente» per tre generazioni. Si chiamava T.O. Nesi&Figli Spa (figli stava a significare che sarebbe passato da erede in erede). Da lì sono usciti tessuti che hanno raggiunto tutte le parti del mondo. Soprattutto la Germania, dove le belle lane di Prato erano considerate fondamentali per cucire cappotti resistenti al freddo degli inverni nordici. Ma quando lui, suo padre Alvarado e suo zio Alvaro sono usciti dallo studio del notaio D’Ambrosi quella storia è stata cancellata. Per carità, nel pluricentenario sviluppo della tessitura in quel di Prato gli atti che hanno aperto e chiuso manifatture sono stati migliaia.
Eppure nella vicenda tutta personale dei Nesi e dei loro operai c’è un segno dei tempi, quasi una precognizione della crisi che è seguita, un’annunciazione triste dell’onda di tzunami che avrebbe colpito le piccole imprese italiane, soprattutto quelle del comparto tessile. Dopo che i Nesi hanno dato forfeit, che hanno abbandonato un mercato dove la qualità e l’artigianato venivano soppiantati brutalmente dal basso costo a tutti i costi, Prato è stata messa sotto assedio. I piccoli imprenditori strozzati dall’Irap di Visco (nel settore la chiamavano Iraq a causa dei danni prodotti), sempre più stilisti che comprano in Cina senza guardare alla qualità, sempre più cinesi che vengono in Italia, aprono laboratori pieni di manovalanza in nero e attaccano delle belle etichette con scritto Made in Italy, portando le tremende condizioni di lavoro di Shenzhen tra le ridenti colline toscane. E mentre il più importante polo laniero italiano già vacillava sotto questo attacco congiunto: ecco arrivare la crisi internazionale, quella che sta completando la mattanza causando migliaia di disoccupati. E non solo a Prato, anche i coraggiosi delle piccole imprese del Nordest si suicidano e la Brianza trema.
Di fronte a questo cambiamento epocale Edoardo Nesi, che già prima di abbandonare la produzione di loden in grado di durare una vita si era dedicato alla scrittura, sfornando romanzi capaci di arrivare in finale al premio Strega (L’età dell’oro), ha ripreso in mano la penna per comporre una cronaca accorata: Storia della mia gente (Bompiani, pagg. 166, euro 14). Il senso di questo libro sospeso tra l’autobiografia, il pamphlet economico e il verismo è tutto nel titolo e nella frase di Fitgerald che l’ha ispirato: «È una storia meravigliosa. È la mia storia, è la storia della mia gente».
E infatti Nesi racconta di quegli uomini che hanno ricostruito i lanifici dal niente dopo che «quelle teste di cazzo dei nazisti» li avevano fatti saltare in aria per lasciarsi terra bruciata alle spalle, racconta della sua gioventù «dorata»: «Mi avevano promesso il mondo... Se avessi avuto le capacità, il coraggio, la forza d’animo, ce l’avrei fatta. Non avevo limiti che non fossero i miei». Racconta il rumore incessante («che da lontano sembra un temporale») dei filatoi, le corse sulle autostrade tedesche per raggiungere tutti i clienti, i pagamenti a dieci giorni con assegni sempre coperti, la creatività di geni dell’ordito e della trama come Sergio Carpini che smise di produrre le sue incredibili pezze la prima volta che uno stilista gli chiese il prezzo di una partita di tessuto («il prezzo, non uno sconto»).
Ed è a questo punto delle vicende economiche, quando tutto diventa questione di ribassi di pagamenti dilazionati all’infinito, di pesci grossi che mangiano pesci piccoli e di caccia al globale e globalizzato che la narrazione diventa amarissima. Nesi ripesca dalla memoria le aste selvagge, quelli che appena possono delocalizzano, i capannoni che si riempiono di disperati arrivati dalle pianure della Cina centrale, ammassati come bestie a farsi sfruttare per 14 ore al giorno, i molti italiani che restano a casa dal lavoro e non sanno più dove sbattere la testa. Lui seduto alla Capaninna di Forte dei Marmi con sua figlia, lui che scrive e in qualche modo se l’è cavata, che non ha la forza di raccontarle una situazione del genere e che si rifugia nello sperare che l’Italia venga salvata dalla cultura: «Sarebbe un sogno. Se i romanzi i film e i quadri... e persino la moda potessero aiutare tutti a non perdere il lavoro e a non scivolare prima nella depressione e poi nella povertà. Anche a quei buffoni di stilisti andrei a chiedere aiuto...».
Ma Nesi l’imprenditore sa benissimo che queste cose non bastano. Dice al Giornale: «Ho tanta rabbia verso quegli economisti che parlavano solo e sempre di globalizzazione. Vorrei vedere una politica che investe nei giovani e negli start-up. È questo che serve, degli start up di vero made in Italy, la guerra ad abbattere i prezzi con la Cina non può vincerla nemmeno l’Etiopia».

Perché Nesi crede nell’imprenditoria che crea, non nella compravendita di azioni. E per quanto sia amareggiato in quell’«& figli» inserito, un tempo, nel nome della sua azienda vorrebbe sperarci ancora: significa futuro.

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Pubblica un commento
Non sono consentiti commenti che contengano termini violenti, discriminatori o che contravvengano alle elementari regole di netiquette. Qui le norme di comportamento per esteso.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica