Cronache

Incidente in Svizzera, davanti alla strage  anche la fede vacilla

La loro tragedia è troppo grande per le nostre coscienze. E non è per nulla scontato che un individuo, credente o no, si domandi: dov’era Dio, in quell’istante?

È vero. Tutti i giorni, tutte le ventiquattr’ore che, uniche e irripetibili, attraversano la vita sulla Terra, sono ben più di ventidue i bambini che, ingiustamente, muoiono, lasciando nello sconforto mamma e papà, oppure i sacerdoti e le suore dell’istituto - in Ruanda, in Paraguay, dovunque - che li ha accolti, soli e malati, già orfani. La loro tragedia è troppo grande per le nostre coscienze. Le immagini della fame e della miseria nel mondo, girate da operatori imbarazzati e commentate da uomini paurosi come noi, mantengono quella genericità che ci è necessaria per non pensarci troppo: ma noi sappiamo che si tratta in realtà di tante tragedie, di tante piaghe, una diversa dall’altra, perché la morte sarà pure ’a livella, come diceva superficialmente Totò, però tocca a me, a te, a lui, ed è sempre la mia morte, la tua morte. Se è più facile provare dolore e angoscia e ribellione davanti ai ventidue bambini belgi morti nel Vallese, è perché le loro vite ci sono più familiari, è perché prima di morire erano uguali a tutti, McDonald’s, facebook, XBox, i primi fraintendimenti amorosi, è perché prima dell’infelicità erano fortunati. Difficile immaginare che cantassero canti di montagna, o che tra loro esistessero dei veri appassionati di alpinismo. Forse tra loro c’era perfino qualche bulletto. Chissà. È questo che ci fa più male, il fatto che possiamo immaginare le loro vite, entrare nelle loro case, vedere i loro salotti e i rubinetti dei loro bagni, i soprammobili delle ragazzine, i cuoricini disegnati sul diario, tutte cose che, una volta passata l’ala della morte, di colpo ci appaiono nella loro verità. La sbornia vitalistica che tutti in qualche modo conosciamo, e che ci fa credere eterni, passa all’improvviso. E non è per nulla scontato che un individuo, credente o no, si domandi: dov’era Dio, in quell’istante? È una domanda inevitabile, che noi cerchiamo di evitare ma che prima o poi scatta in tutti, e soprattutto in chi crede, perché chi crede è più fragile e più esposto: sa che Dio non si può prevedere, e viene come un ladro nella notte. I non credenti possono accomodare Dio nell’idea di Dio, e discutere di Lui come se fosse un’idea, ma chi crede sa che non è così, ed è proprio per questo che crede: perché sa. Sapere che le vie di Dio non sono le nostre (Isaia), accettare l’assurdo come la morte di ventidue ragazzini felici in un giorno felice, accettare il silenzio di Dio, è cosa dura. Dire con serietà «sia fatta la tua volontà» è cosa dura. Posso capire perciò le reazioni di molti cristiani a uno scatto d’ira contro Dio, però bisogna capire anche lo scatto d’ira. Dio non ha risparmiato lo scandalo nemmeno a Suo Figlio, le cui ultime parole sono quelle del salmo: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» Forse Dio vuole da noi questa ribellione, questa ira, affinché comprendiamo che la fede non è una dottrina né tantomeno un’ideologia, ma un parto della nostra povera carne ferita. È così, da dentro la carne, che Dio ha voluto far sorgere la fede. Dobbiamo accettare che la morte di quei ventidue ragazzini resti un mistero, dobbiamo accettare di non sapere dov’era Dio in quell’istante (magari era proprio lì), al momento di quello schianto inspiegabile. Dio non vuole il male dei suoi figli, ma lo accetta, con il cuore addolorato. Per amore ha rinunciato alla sua onnipotenza, si è fatto fragile, si è lasciato ferire. Certo, se avesse voluto, quei ragazzini non sarebbero morti: così come, se avesse voluto, Gesù Cristo non sarebbe morto in croce. Bisogna però ricordare, visto che si avvicina la Pasqua, che anche la Risurrezione è uno scandalo. La morte ci fa male, ma poi, come dice il proverbio, il tempo rimargina le ferite. È difficile accettare la morte, ma poi è facile accomodarsi in essa, rassegnarsi alla finitezza. Ma quando il dolore è fresco, e noi gridiamo per la ribellione contro il destino e contro Dio, c’è in noi il desiderio che la ferita sanguini per sempre, che la memoria non si cancelli mai, che il dolore non passi mai più. Pensateci bene: è così.

Perché le lacrime sono più belle dell’oblio, e lo strazio è più dolce dell’indifferenza: così dolce che solo a Dio sarà concesso di asciugare i nostri occhi.

Commenti