INDIA Il Paese dove vivono due mondi

La città della tremenda notte sta alla città degli eccessi come un giovane inglese che nell’Ottocento scopriva l’India sta a un giovane indiano che da New York torna a Bombay e trova una città che non conosceva.
Così i santoni e i funzionari di sua Maestà inglese, i lebbrosi e gli intoccabili diventano gangster e prostitute ballerine da bar e terroristi. E l’India raccontata, più di cento anni fa, dagli occhi sognanti di un giovane che studiava per vincere il Nobel e che con tutti i suoi sforzi non sarebbe mai riuscito a non guardare gli indiani con le lenti deformate dell’occidentale, diventa la metropoli neoglobalizzata analizzata oggi con la lucida precisione di un indiano che ha compiuto il viaggio di ritorno dalla fantasia alla realtà e, tornato nella città in cui è nato, la ritrova incredibilmente simile alle periferie postmoderne dell’America urbana e nello stesso tempo con una carica di eccessi e di vitalità che l’Occidente è ormai troppo vecchio e stanco per sopportare.
Quando Rudyard Kipling a vent’anni scrive, sotto forma di cronache, i racconti che adesso vengono pubblicati da Adelphi in La città della tremenda notte (pagg. 271, euro 18), l’India è un mondo misterioso e incantato anche per il giovane angloindiano che pure ha respirato fin dall’infanzia quegli odori forti che con un solo alito di vento si trasformano in fetori insopportabili. Ma è, e non può non essere, un mondo diverso, potremmo anche dire inferiore, se non fosse politicamente scorretto: la giovane Lispeth che si strugge d’amore per un inglese è poco più della buona e selvaggia Pocahontas; il vecchio Suddhoo più che un saggio è un rimbambito; perché: «Ora l’India è un posto diverso da tutti gli altri, dove le cose non vanno prese troppo sul serio (...) a parte il sole di mezzogiorno. Il troppo lavoro e il dispendio di energie uccideranno con altrettanta efficacia degli eccessi di depravazione o del bere smodato (...). Se lavori bene non conta: un uomo è giudicato in base al suo peggiore rendimento (...). I divertimenti non contano: una volta finito lo spasso ti tocca ricominciare da capo e poi i divertimenti si riducono per lo più a cercare di accaparrarsi i soldi di qualcun altro (...) è un paese indolente dove si lavora con strumenti difettosi, e la cosa più saggia è scappare al più presto in un posto dove il divertimento sia divertimento e dove valga la pena avere una reputazione».
La Bombay che Suketu Mehta radiografa in Maximum City (Einaudi, pagg. 540, euro 19,50) è sicuramente la città degli eccessi che recita il sottotitolo, ma ha perso quell’alone incantato e fiabesco, e soprattutto ingenuo che vedeva Kipling. Bombay sta sempre in India ma se ha cambiato nome ed è diventata Mumbai è perché ha perso la sua innocenza e somiglia più alla Napoli Gomorra di Roberto Saviano che alla città della tremenda notte di Kipling. Mohsin, il killer che uccide per poche migliaia di rupie, non è tanto diverso dai ragazzi di Secondigliano che ammazzano per qualche centinaia di euro. Ajay Lal, il poliziotto che non prende bustarelle ma spezza le gambe agli inquisiti per farli confessare, sembra un’intoccabile di Brian De Palma o un personaggio da romanzo criminale all’italiana. Ma se Mumbai è come Napoli e New York, è anche qualcosa di più. Perché solo lì Monalisa, la ballerina che fa impazzire banchieri e mafiosi nei bar della città. Ammirata e riconosciuta come una diva del cinema, consuma ogni notte i desideri degli uomini che la ricoprono letteralmente di banconote per centinaia di migliaia di rupie, mentre in Occidente finirebbe in qualche talk show televisivo.
L’India di Suketu Mehta non è più la colonia di un impero che manda il suo Kipling a scoprirla e a sognarla, ma è una delle tante capitali dell’imperium globale in cui i meccanismi della vita e della morte, delle passioni e della violenza sono uguali e l’unica differenza è che invece che in dollari si misurano in rupie. Suketu Mehta lo capisce alla fine del suo viaggio in una città che ha potuto possedere soltanto dopo averla abbandonata ed esserci ritornata. «La Battaglia di Bombay è la battaglia del sé contro la folla. In una città di quattordici milioni di abitanti, quale valore viene dato al numero uno? È la battaglia dell’uomo contro la Metropoli, la quale non è che l’infinita estensione dell’uomo e il demone contro il quale deve lottare costantemente: è in gioco l’affermazione o la cancellazione di sé».
E se la città della tremenda notte di Kipling è l’isola che non c’è in cui il romanzo dell’Ottocento vive il suo sogno, la città degli eccessi di Suketu Mehta è la metropoli del XXI secolo in cui ogni sogno ha il suo prezzo. Nell’India di Kipling, dietro le guerre c’è ancora l’ombra dell’avventura e dell’ideale, e poco importa se il sole della storia mostrerà poi le leggi del potere e del denaro.

Quella di Mehta è il campo di battaglia in cui lottano terroristi islamici e nazionalisti spaventati, in cui si uccide e si ama solo per soldi, in cui si è irrimediabilmente perduta l’innocenza che Kim, l’eroe che Kipling ha trovato al termine del suo viaggio nel sogno indiano, poteva conservare anche in mezzo alla grande menzogna della storia.

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