Duncan ha aspettato vent’anni per avere giustizia. Indietro si è lasciato l’inferno: un padre in cella. Un padre condannato a 52 anni per pedofilia. Nel 2005 l’uomo è stato giudicato colpevole. Così Duncan ha chiuso il conto che aveva con suo padre, forse ha vinto. Nessun odio, nessun amore. Un senso di vuoto che sa di indifferenza, che profuma di leggerezza. Suo padre ha iniziato a chiedergli di «amarlo» dall’età di quattro anni. Da allora è successo quasi ogni giorno, ogni scusa era buona: il bagnetto, la piscina, le gite. «Papà ti vuole bene, tutti fanno così», parole che sapevano confondere. I ricatti subdoli e meschini per comprare il silenzio: «Non vorrai mica che papà vada in prigione? Sarà il nostro segreto». In mezzo lacrime, sensi di colpa, repulsione, un tentato suicidio a 14 anni, e poi la lenta deriva, droga, alcol, furtarelli. Buttarsi via a quel punto non era poi così difficile. Fino all’incontro con una donna, l’amore vero, il rispetto di sé, la molla che scatta per denunciare e iniziare un processo contro il mostro, contro il padre. Oggi Duncan Fairhurst, inglese, ha scritto la sua storia: Il nostro piccolo segreto, pubblicato da Sperling & Kupfer, per testimoniare, per incoraggiare le vittime a farsi avanti.
Denunciare il padre è l’unico modo per sopravvivere?
«Non proprio. Vivere avrei vissuto ugualmente. Ma non mi sarei mai sentito libero. Aver avuto giustizia mi ha liberato da lui, dal ricordo opprimente di un’infanzia rubata».
Lei crede in Dio?
«Sì. Mio padre era un devoto cattolico che giustificava i suoi abusi in nome di Dio. È la volontà di Dio, mi diceva».
Cos’è il perdono?
«Mi accontento dell’indifferenza. Per liberarmi da lui ho lavorato proprio sull’indifferenza. Lui è il mio padre biologico. Questo è tutto. Niente di più, niente di meno. Per lui non sento niente. Né amore né odio, né perdono né vendetta. Non è mio compito giudicare mio padre. E perdonare significa prima giudicare. Questo è compito di Dio».
Cosa le lascia in eredità la violenza? Fragilità, empatia, sensibilità?
«Come tutte le persone che soffrono. Mi commuovo, osservo le cose, intuisco prima gli stati d’animo della gente».
Cosa significa conservare un segreto, terribile, così a lungo?
«Diventava sempre più difficile parlarne. Quando ho deciso di denunciarlo ho dovuto aspettare un anno prima di trovare il coraggio di entrare in caserma e raccontare: quell’uomo, mio padre, mi ha violentato».
Perché il silenzio?
«Paura e vergogna. Due ottime ragioni per fermare un bambino di 6 anni, valide per bloccare un ragazzino di 12. La paura di andare contro un sistema. La solitudine in questi casi ti frega. L’idea di dire tutto ai poliziotti, di rendere la cosa pubblica era devastante. Era spogliarsi, ammettere l’inammissibile, riconoscere tuo padre. Ricordare».
Si è mai sentito in colpa per le violenze subite?
«Mai. Dopo anni di analisi ho capito che a 4 anni un bambino non ha scelta. Può solo subire. Lui si è difeso dicendo che ho tentato di sedurlo. Avevo quattro anni».
E la sua adolescenza con le droghe, con l’alcol?
«Quelli erano i demoni del mio passato, erano le mie anestesie. Il mio spazio irreale. Ho rubato, mi sono drogato e ho venduto droga. Due anni di analisi mi hanno salvato».
Cosa le ha portato via suo padre oltre all’innocenza?
«Mio padre. Nessuno da cui andare per un consiglio sulle ragazze, il lavoro, i soldi. Mi ha rubato una grossa fetta della mia vita. Mi ha lasciato una tristezza incolmabile perché so che non avrò un secondo padre nella mia vita e ogni volta che ripenso a lui rivedo solo violenze subite».
Cosa prova per sua mamma? Che non la seppe mai difendere?
«Lei era una donna molto semplice, debole, dipendente da lui. Ho capito che mio padre è stato un genio dell’inganno».
Come ricorda suo padre?
«Ricordo la sua espressione quando provava piacere dentro di me. E ricordo le mie lacrime.
Le parole che non può dimenticare?
«Avanti Duncan. Ma come, non vuoi più bene al tuo papà?».
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