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Inferno a Beirut, Hezbollah minaccia guerra: dieci morti

Secondo giorno di scontri tra fazioni armate. La capitale divisa in due, l’aeroporto isolato. Il leader sciita Nasrallah: "Taglieremo le mani a chi ci vuole aggredire"

Inferno a Beirut,  
Hezbollah minaccia 
guerra: dieci morti

L’ultima sua comparsa davanti ai giornalisti risaliva al 12 luglio 2006, poche ore prima della guerra con Israele. Ieri puntuale come una maledizione, il segretario generale di Hezbollah Hasan Nasrallah allestisce una videoconferenza e accusa il legittimo governo del premier libanese Fouad Siniora di avergli dichiarato guerra. Pochi minuti dopo la guerra divora il centro di Beirut. Stavolta non sembra un fuoco di paglia. Stavolta la crisi apertasi nell’autunno del 2006 con l’uscita dal governo di Hezbollah e delle altre forze filo siriane sembra alla resa dei conti finale. Il bilancio degli scontri è di almeno cinque morti, ma da ieri pomeriggio Beirut è di nuovo una città divisa, come negli anni della guerra civile. In tutta la zona occidentale una linea di fuoco ed esplosioni divide i quartieri sunniti fedeli al governo e quelli sciiti controllati dai partigiani di Hezbollah.

L’esercito esibisce la tradizionale equidistanza contrapponendosi ad entrambe le fazioni, ma rischia di dissolversi lacerato dalle divisioni tra sunniti, sciiti e cristiani che lo disgregano dall’interno. Il vero demiurgo di questo nuova picchiata nell’abisso, il vero signore della guerra è ancora Hasan Nasrallah. Mentre accusa il governo di voler combattere «contro la resistenza per conto degli americani», rivendica la legittimità dello Stato nello Stato costruito in Libano e minaccia di «tagliare le mani» a chiunque tenti di smantellarlo.

«Taglieremo le mani a chiunque proverà ad alzarle su di noi, se qualcuno tenterà d’arrestarci lo arresteremo noi, se qualcuno vorrà spararci spareremo prima noi», ulula il bellicoso leader di Hezbollah. L’avvertimento è già sostanza. Mentre il capo minaccia le sue milizie sono sul piede di guerra. La corsa verso l’abisso è iniziata qualche giorno fa quando il governo Siniora ha prima rimosso un alto funzionario della sicurezza che garantiva ad Hezbollah il controllo dell’aeroporto di Beirut e ha poi cercato d’imporre lo smantellamento della rete telefonica a fibre ottiche usata da Hezbollah per comunicare con le unità da combattimento, i comandi di Beirut e gli alleati iraniani e siriani. La videoconferenza - realizzata attraverso la stessa rete clandestina - è in verità un ultimatum, un diktat per imporre a Siniora e agli alleati cristiani e drusi la scelta tra una guerra aperta e la definitiva rassegnata accettazione dello stato fantasma di Hezbollah. Nelle 48 ore precedenti i miliziani hanno, non a caso, assunto il controllo delle principali vie di comunicazione del Paese e hanno sigillato la strada dell’aeroporto imponendo la chiusura dello scalo. Non a caso Kalashnikov e lanciagranate di Hezbollah aprono il fuoco subito dopo la fine della conferenza stampa. Ma per molti osservatori la decisione di Nasrallah potrebbe rivelarsi un altro azzardo simile a quello dell’estate 2006 quando Nasrallah sfidò Israele.

Siniora e il leader druso Walid Jumblatt, accusato ieri da Nasrallah di complicità con lo stato ebraico e gli Usa, conoscono la potenza militare del Partito di Dio e sanno che una defezione sciita rischia di dissolvere l’esercito, ma probabilmente hanno qualche carta da giocare. Forse contano sull’appoggio delle navi statunitensi schierate davanti al porto di Beirut. Forse hanno ricevuto il via libera dall’Arabia Saudita che da tempo arma e finanzia le milizie sunnite. Forse bluffano e contano sulla necessità di Teheran di esercitare la propria influenza su un Libano stabile per non perdere consensi tra le opinioni pubbliche arabe.

Di certo ieri sera mentre il governo Siniora si riuniva in seduta d’emergenza, Saad Hariri, figlio del premier assassinato e volto simbolo dei sunniti, raccoglieva il guanto della sfida annunciando di non voler piegarsi alla volontà di nessuno.

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