«Influenza A meno grave di quella stagionale Non mi faccio vaccinare»

Voleva un istituto di ricerca non profit sui medicinali. Il filantropo milanese Mario Negri in punto di morte gli disse: «Fatto». E gli lasciò nel testamento l’equivalente di 11 milioni di euro

Il professor Silvio Garattini intrattiene con le medicine lo stesso rapporto che ha con le camicie: non le usa mai. Siccome ha fondato e dirige l’istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri, è paragonabile a un produttore di vino che si dichiarasse astemio. Se poi gli chiedi perché da 40 anni indossi soltanto il maglioncino d’ordinanza di colore rigorosamente bianco, di cotone in estate e di lana in inverno, ti osserva meravigliato: «E lei perché ha camicia e cravatta?». Mente scientifica. Quindi ti spiega indulgente che i suoi dolcevita, acquistati in blocco dalla moglie in via del Corso a Roma, da Schostal, sono assai più pratici: «Si stirano portandoli». Nel tempo sono fiorite parecchie leggende metropolitane su questo abbigliamento che lo rende molto simile a un frate domenicano: «Alcuni dicono che ho fatto un voto, altri che è un modo per nascondere un’anomalia del collo», e scosta verso il basso l’orlo della cocolla laica per mostrare un décolleté rugoso ma sanissimo. Nessuna delle due. Bravo chi indovina la terza.
Garattini è nato a Bergamo da un impiegato di banca e da una casalinga, rimasta per lungo tempo invalida a causa d’una grave malattia. Diplomatosi perito chimico, affrontò gli esami al liceo scientifico per iscriversi all’università e diventò medico. In corso d’opera scoprì la sua vera vocazione: la ricerca. Come scienziato e docente da allora s’è sempre occupato di farmacologia e chemioterapia. Un giorno del 1958 si presentò da lui Mario Negri, un imprenditore della gioielleria, il classico cumenda milanese largo di portafoglio e di cuore, che aveva investito nella Burroughs Wellcome, un’industria farmaceutica britannica senza scopo di lucro. Voleva consigli su un farmaco. Garattini, che era appena tornato da un lungo soggiorno negli Stati Uniti, gli chiese a bruciapelo: «Perché non mi aiuta a costituire una fondazione non profit privata come quelle che ho visto negli Usa, indipendente da Stato, università e industrie?». L’anno dopo Negri s’ammalò di cancro. In punto di morte, convocò Garattini: «Professore, volevo dirle che tutto è stato fatto secondo i suoi desideri». Nel 1960, all’apertura del testamento, il ricercatore scoprì che il filantropo gli aveva lasciato 900 milioni di lire, rivalutati a oggi oltre 11 milioni di euro.
L’istituto Mario Negri è frutto di quell’eredità, anche se i costi di funzionamento ora ammontano a quattro volte tanto: 42 milioni di euro l’anno. Dai 22 pionieri del 1963, è passato a 1.000 dipendenti, compresi tre dei cinque figli del professor Garattini. Dispone di quattro sedi. Quella principale, alla Bovisa, inaugurata nel 2007 dal presidente della Repubblica, è costata 70 milioni di euro. Il fondatore ha dato impulso alla lotta contro il cancro, le malattie nervose e mentali, le malattie cardiocircolatorie e renali, gli inquinanti ambientali, le malattie rare, le droghe e ha sviluppato nuovi modelli per lo studio delle patologie neurodegenerative, come l’Alzheimer, il Parkinson, la sclerosi laterale amiotrofica e l’epilessia. Non esiste organismo nazionale o internazionale che abbia a che fare con la salute e con i farmaci nel quale Garattini non sia stato cooptato: fra gli altri, Oms, Emea, Cnr, Cuf, Aifa (gli importanti acronimi diranno poco ai non addetti ai lavori, ma almeno hanno il pregio della sintesi). La Francia gli ha conferito la Legion d’onore.
Roberto Gervaso ha scritto: «L’Italia gli deve molto e Stoccolma gli dovrebbe qualcosa». In pratica l’ha candidata al premio Nobel.
«Una carineria senza legami con la realtà».
Lei è medico e compirà 81 anni il prossimo 12 novembre, dunque doppiamente a rischio per l’influenza A, detta anche suina. Si vaccinerà?
«No. Sono medico ma non frequento i malati e come anziano non corro rischi: i più esposti sono i giovani fino ai 27 anni e le donne in gravidanza. Diverso è il caso degli operatori sanitari a contatto con i pazienti: se si ammalassero tutti insieme, chi manderebbe avanti gli ospedali?».
Pare che il 70% dei medici non abbia alcuna intenzione di vaccinarsi.
«Anche per l’influenza di stagione non si vaccina mai più del 20-30% del personale sanitario».
A luglio ha dichiarato all’Ansa: «Se il virus H1N1 manterrà il livello di virulenza attuale, non c’è la necessità di vaccinare tutta la popolazione». Oggi è cambiato?
«No. Le analisi più recenti confermano la bassa aggressività che era stata osservata nel virus isolato ad aprile».
Allora perché la psicosi?
«L’età delle vittime desta impressione. Ma l’opinione pubblica non sa che in Italia l’influenza uccide ogni anno dalle 5.000 alle 8.000 persone. Giornali e Tv fanno la conta: primo morto, secondo morto, terzo morto... La gente si spaventa. Nessuno spiega che la prima vittima già soffriva di insufficienza renale, cardiaca e respiratoria e di diabete. Di questo passo saranno classificati come morti per influenza anche i contagiati dalla “suina” che si buttano sotto il treno. Inoltre, qualora il virus dovesse mutare, non è detto che il vaccino sia in grado di proteggere. Può anche accadere che il picco infettivo passi prima che il vaccino sia disponibile per tutti».
Nel frattempo che fare?
«Evitare luoghi affollati, stare ad almeno un metro di distanza da chi è raffreddato e starnutisce a pieni polmoni anziché nel fazzoletto, lavarsi spesso le mani».
Le scorte di Amuchina sono esaurite.
«Bastano acqua e sapone».
Lei ha parlato di «una grande pressione da parte delle industrie farmaceutiche, che dalla corsa al vaccino trarranno molte risorse economiche». Quali sono queste industrie?
«Gsk, cioè Glaxo Smith Kline, Novartis, Sanofi Pasteur, Baxter. Ma, più che col vaccino, si faranno affari d’oro con i due antivirali, l’oseltamivir e lo zanamivir, prodotti da Roche e Gsk con i nomi commerciali Tamiflu e Relenza, che andrebbero somministrati solo nei casi gravi, in ospedale».
Che cosa contiene il vaccino?
«Tre componenti: un liquido a base di acqua e sali; un adiuvante, lo squalene, che aumenta la risposta anticorpale; gli antigeni ottenuti dalle proteine del virus».
Ma lo squalene non è pericoloso? Il 95% dei veterani dell’esercito Usa che hanno sviluppato la sindrome della guerra del Golfo erano stati protetti dall’antrace con un vaccino contenente squalene.
«Non ci sono prove di questa correlazione nociva. Lo squalene è presente nel corpo umano, è un precursore del colesterolo».
La Food and drug administration lo ha proibito nella versione americana del vaccino. Perché in Europa e in Italia c’è?
«Alcuni Paesi preferiscono vaccini privi di adiuvanti, altri Paesi preferiscono gli adiuvanti per abbassare la dose di antigeni e il numero di iniezioni».
Se i suoi cinque figli avessero meno di 30 anni, li farebbe vaccinare?
«Avrei molti dubbi a farli vaccinare, anche perché non c’è vaccino disponibile per tutti».
Non si nasconda dietro un dito.
«Ne parlerei col medico».
Lei è medico.
«Ma non sono il medico dei miei figli».
Li farebbe vaccinare sì o no?
«Se avessi un figlio asmatico, sì. Se fosse diabetico o avesse qualche deficit immunitario, sì. Se fosse predisposto alle malattie respiratorie, sì. Insomma, non lo farei vaccinare solo perché va soggetto di frequente a tosse e raffreddore o perché in passato ha avuto una polmonite occasionale».
Che cosa differenzia l’influenza A da una normale influenza?
«Niente. La sintomatologia è uguale. Nella stragrande maggioranza dei casi l’influenza A è una sindrome benigna, meno grave dell’influenza di stagione e comunque con una mortalità inferiore».
Però tirano in ballo la spagnola, che dal 1918 al 1920 fece 50 milioni di morti.
«È impopolare dirlo, ma l’Organizzazione mondiale della sanità ha commesso errori grossolani nella comunicazione. Che senso ha parlare di pandemia quando si sa da sempre che qualsiasi tipo di influenza colpisce in tutto il mondo? Il riferimento alla spagnola è assurdo. Oggi disponiamo di molte armi che nel secolo scorso non c’erano: vaccini, antibiotici per curare le sovrapposizioni batteriche, terapie intensive, respirazione artificiale, condizioni complessive di salute migliori, igiene e alimentazione adeguate, case riscaldate».
Più progredisce la ricerca e più aumenta l’allarmismo. Non le pare un controsenso?
«C’è un fattore nuovo: la globalizzazione. La gente viaggia. Se i soldi che l’Occidente ha speso in vaccini fossero stati investiti per far sì che in Indonesia gli uomini non vivano più con i polli, l’influenza aviaria sarebbe stata debellata per sempre».
La temuta pandemia di aviaria non ci fu. Eppure in Italia erano stati previsti 2 milioni di ricoveri e 150.000 morti.
«Tutti danno i numeri».
Non è strano che il panico da aviaria sia esploso il 13 settembre 2005 a opera degli inviati speciali dei giornali che a Malta seguivano la seconda Conferenza europea sull’influenza, sponsorizzata dalle holding farmaceutiche dei vaccini?
«Io a Malta non ci sono andato. Ma non tutto quello che succede dopo è determinato da ciò che era accaduto prima».
Come dice Andreotti, a pensar male si fa peccato però spesso ci si azzecca.
«Spesso ma non sempre. Stabilire un rapporto fra causa ed effetto è uno dei compiti meno facili anche se resta uno degli esercizi più popolari. Per le mucillagini nell’Adriatico gli ambientalisti puntarono il dito contro il Po inquinato, le industrie, il fosforo. In realtà vi sono testimonianze scritte a partire dal 1642 sulla periodica comparsa in quel mare di una densa poltiglia».
Che fine hanno fatto i vaccini contro la temuta pandemia di aviaria? L’Italia ne prenotò 36 milioni di dosi, per l’influenza A siamo addirittura a 48 milioni.
«Non lo so. Fa parte dei segreti di Stato. In campo farmaceutico tutto è riservato. Sono stato sette anni all’Emea, l’agenzia dell’Unione europea per la valutazione dei medicinali, ed ero vincolato alla confidenzialità. Se lei chiede all’Emea la documentazione su un farmaco approvato, non l’avrà».
Quanti sono i farmaci registrati in Italia?
«Buona domanda. Il numero cambia tutti i giorni». (Consulta vari volumi). «Ecco qua: 13.344, di cui 6.467 concedibili dal Servizio sanitario nazionale».
Quelli dannosi a suo avviso quanti sono?
«Dannosi non molti. Ma il 50% sono inutili e potrebbero essere eliminati con qualche vantaggio per la salute».
E quali sono quelli inutili?
«Immunostimolanti, epatoprotettori, vasodilatatori, dimagranti, antiossidanti, antivecchiaia, antiradicali liberi e integratori alimentari a base di vitamine, minerali, amminoacidi, erbe. Aggiunga i farmaci per la memoria, che sarei il primo a utilizzare se funzionassero».
Come mai la Novalgina è venduta in Italia, mentre è vietata negli Usa fin dal 1977, non è mai stata registrata nel Regno Unito e l’hanno ritirata dal commercio in Francia, in Germania e nei Paesi scandinavi?
«È in fascia C, quindi non è considerata un farmaco essenziale. Dipende anche dalle caratteristiche delle popolazioni. Si vede che in Italia è più bassa che altrove l’incidenza dell’agranulocitosi, una delle reazioni avverse più temibili al metamizolo, il principio attivo della Novalgina».
Qual è l’atteggiamento degli italiani verso i farmaci?
«Da una parte fideistico, per cui si allentano le regole igieniche presumendo che vi sia una medicina per tutto; dall’altra fobico, perché ognuno capisce che nessun farmaco è completamente innocuo, motivo per cui molti si rivolgono alle erbe, convinti che ciò che è naturale sia anche buono. Peccato che un estratto vegetale contenga migliaia di sostanze chimiche».
E il suo atteggiamento?
«Non uso mai medicinali, a parte la cardioaspirina per problemi circolatori, quando me ne ricordo. L’importante è dare un ritmo al corpo e mantenerlo. Io mangio una volta al giorno, la sera. Al mattino e a mezzogiorno solo un tè».
Le diagnosticano un tumore. Che fa?
«Dipende. Se non è asportabile chirurgicamente, mi affido ai protocolli e mi sottopongo alla chemioterapia. Non sarà la soluzione, ma è meglio di niente».
Che cosa pensa degli elevati consumi di Viagra?
«Uno dei tanti utilizzi impropri di un farmaco. Era nato per curare le disfunzioni erettili, non per aumentare le performance sessuali nei satiri».
Favorevole o contrario a ricavare le cellule staminali dagli embrioni congelati?
«Il tema è superato dalla ricerca, perché oggi dalla cute di un adulto si possono produrre cellule che hanno le caratteristiche delle staminali embrionali».
Non svicoli.
«Piuttosto che lasciarli a 196 gradi sottozero, meglio utilizzarli nella sperimentazione».


Ma come? Da giovane non lavorava negli uffici dell’Azione cattolica?
«Certo, ma poi ognuno ha la sua evoluzione. Su queste tematiche il Papa non parla ex cathedra. Esprime un’opinione, mica un dogma».
(470. Continua)
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

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