Le inquietudini di «Primato» e i pregiudizi di Mirella Serri

La rivista di Bottai non fu «una corazzata della cultura fascista» ma l’espressione degli intellettuali più vivaci

Le inquietudini di «Primato» e i pregiudizi di Mirella Serri

Già un paio di anni fa quel guru della storiografia giornalistica che è Paolo Mieli venne da me rimbeccato per l’eccessivo e inopportuno credito dato ad una tesi dello studioso Michele Sarfatti secondo cui Primato, la tanto discussa rivista diretta da Giuseppe Bottai tra il 1940 e il 1943, fosse nientemeno da annoverare tra i più sottili progetti «programmaticamente e totalitariamente ariani e antisemiti» architettati nell’ultimo fascismo. Deve essere però purtroppo vero che la fortuna delle scemenze non ha le gambe corte. E dispiace che la barcollante tesi del Sarfatti abbia finito per essere recepita quasi come oro colato nella trama del libro di Mirella Serri I redenti. Gli intellettuali che vissero due volte 1938-1948 (Corbaccio) che proprio a partire da Primato presume di poter mettere meglio a fuoco la «doppia vita» di tanti protagonisti della cultura italiana nel più tormentato passaggio non solo spirituale della nostra storia moderna (tra il distacco più o meno dissimulato dal fascismo e il profilo di quella che sarà la complicata identità del «nuovo antifascismo» nato con la Resistenza).
Compilando biografie senza quasi omissioni Mirella Serri ritrae con una certa diligenza la versipelle macchina di Primato che l’intelligente e inquieto Bottai attrezzò a scopo di fronda personale nelle prospettive, incerte per tutti, che lo scenario della guerra mondiale aveva appena inaugurato (c’erano Ungaretti, Cardarelli, Quasimodo, Montale, Sibilla Aleramo, Sandro Penna, Alfonso Gatto, tra i poeti; ma poi ancora Riccardo Bacchelli, Massimo Bontempelli, Corrado Alvaro, Vitaliano Brancati, Carlo Emilio Gadda, Vasco Pratolini, Romano Bilenchi, Carlo Bernari, Cesare Zavattini, tra gli scrittori; Nicola Abbagnano, Enzo Paci, Galvano della Volpe, tra i filosofi; e poi Piero Bargellini, Carlo Muscetta, Mario Alicata, Luigi Russo, Gianfranco Contini, tra i letterati; e Giulio Carlo Argan, Cesare Brandi, Giuliano Briganti, Antonello Trombadori tra i critici d’arte; senza omettere Renato Guttuso, Giacomo Manzù, Mario Mafai, tra gli artisti più giovani accomunati a Casorati, Carrà, Rosai, De Pisis, e tanti altri chiamati ad illustrare copertine e pagine della rivista).
Ma questa imponente foto di gruppo - che da sola restituisce l’ambizione elitaria di un progetto prefigurante, magari, un «dopo Mussolini», ma non certo le ambizioni del vecchio antifascismo - viene poi annegata dalla autrice in un bagno di giudizi piuttosto campati per aria. Che confondono il Bottai zelante esecutore delle leggi razziali in campo scolastico (1938) con la successiva esperienza direttiva della rivista dove invece, tenuto conto delle circostanze in cui nacque, di antisemitismo programmatico non esisteva nemmeno l’ombra. Risulta perciò incomprensibile assimilare Primato ai vari strumenti di pressione del regime «per contribuire alla affermazione e al radicamento della legislazione antiebraica», come se facesse più o meno il paio con La difesa della razza di Telesio Interlandi (un simile svarione non dovrebbe capitare neppure di notte, quando «tutti i gatti sono bigi»). Perfino l’idea di un «razzismo italiano» (ivi inteso come «supremazia» spirituale e politica) circolò misurata su Primato a contraltare della sempre più preoccupante egemonia non solo ideologica del nazismo in Europa in evidente polemica con le tendenze più filotedesche del regime (Roberto Farinacci, soprattutto, che aveva voluto con il Premio Cremona promuovere un’arte centrata sul culto ideologico del fascismo mentre Bottai aveva ideato il Premio Bergamo sollevando la bandiera della autonomia espressiva con allori destinati proprio a Mafai e Guttuso, tanto per non equivocare sul «frondismo» delle sue intenzioni).
Stando così le cose, la rivista di Bottai non può essere nemmeno definita e ridotta come una «corazzata della cultura fascista» (così la Serri) perché al di là degli steccati di partito il gerarca vi fece esprimere tutto il meglio della cultura italiana in genere: indirizzandone la parte più viva e inquieta verso un imprecisato «rinnovamento» del regime e del Paese (il fascismo come avrebbe potuto secondo lui diventare) e che invece la storia stessa dopo il crollo del 25 luglio si incaricò di determinare tragicamente per tutti (eterogenesi dei fini). L’innegabile aria di fronda e di aurorale «post-fascismo» che circola nelle pagine di Primato si spiega dunque molto più con le intenzioni e i meriti del suo ideatore che non con il gioco giustificatorio - ex e post - delle «oneste dissimulazioni» o dei compromessi più o meno presunti degli intellettuali che dopo il 1945 segnarono anche la spina dorsale della «nuova identità» democratico-repubblicana. In un certo senso più che parlare di «doppia vita» nei collaboratori di Primato si dovrebbe piuttosto dare ben più corpo al fattore «continuità». Se c’è infatti una responsabilità morale da attribuire alla élite culturale postbellica è proprio quella di avere avvalorato una mistificante damnatio memoriae (di origine non tanto liberale - la crociana «invasione degli Hiksos» - ma soprattutto radical-azionista e radical-comunista) che ha sovrapposto per lungo tempo il pregiudizio ideologico e moralistico ad una equanime valutazione della storia d’Italia tra le due guerre mondiali.
Questa grave carenza storiografica (che rimuoveva la magistrale intuizione di Giacomo Noventa: «Gli uomini della Resistenza, prima ancora che contro il fascismo, avevano combattuto contro se stessi») è stata per un po’ notoriamente colmata dall’importante opera di revisione condotta da Renzo De Felice.

Ma evidentemente ciò non è sufficiente a dissipare il «pregiudizio ideologico antifascista» se quest’ultimo fa ancora capolino ed è la stessa «intellighenzia post 1945» a doverne adesso fare le spese per singolare contrappasso: quando ad esempio a sentire la Mirella Serri si presume inopinatamente di estendere anche al Politecnico di Elio Vittorini - per la evidente contiguità di nomi e cognomi che già furono in Primato - addirittura «una precisa volontà (!) di minimizzare la portata della persecuzione antisemita». Ma quando finirà in Italia questo inutile, stucchevole e dannoso «tiro al piccione»?

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