Sui debiti della Pubblica amministrazione l'Unione europea ha ricordato all'Italia che non firmerà alcun assegno in bianco e ha sottolineato che «la riduzione del debito è più importante del deficit». Considerazioni in contrasto con quanto previsto dal decreto legge di imminente approvazione che impone la ricerca di soluzioni diverse che passino per nuove misure concordate sia con la Banca d'Italia sia con la Bce.
Lo stesso Mario Draghi ha di recente richiamato la necessità di erogare credito a favore delle Pmi e il sistema bancario dispone oggi di molta liquidità presso la Bce che potrebbe essere riversata sulle imprese: questa è l'azione urgente richiesta per un reale sostegno all'economia. Il decreto legge va invece nella direzione di un incremento del rapporto debito/Pil, dagli incerti risultati sia sul mercato dei titoli di Stato sia sull'efficacia per le imprese.
Anche se Bruxelles dovesse chiudere un occhio, ancorché dalle più recenti dichiarazioni non sembrerebbe, la domanda da porsi è se gli investitori siano disposti a fare lo stesso, vedendo il debito italiano salire, o se richiederanno maggiori rendimenti dai nostri titoli di Stato.
Se infatti il problema del ritardato pagamento dei debiti è noto, benché il totale di tale debito non sia noto nemmeno al ministero dell'Economia, gli investitori lontani dall'Europa continueranno a fare riferimento al rapporto debito/Pil disponibile nei report ufficiali del Fmi o della Bce. Anche Giorgio Squinzi, pur richiamando la drammatica urgenza, assolutamente condivisibile, di misure attuative, ha giudicato positivamente il rinvio dell'approvazione di un decreto definito «pateracchio», affinché si predispongano azioni più ponderate e realmente efficaci.
Uno dei meccanismi del decreto che potrebbe maggiormente essere di danno per le imprese è la «postergazione» del pagamento dei crediti ceduti (principalmente alle banche) che, oltre ad avere l'effetto di eliminare una delle poche certezze del mercato - cioè la parità di trattamento dei creditori - ridurrebbe l'attività di factoring, danneggiando di conseguenza le stesse imprese; una misura esattamente contraria alla direzione impressa dalla recente normativa sulla certificazione dei crediti, concepita proprio con l'obiettivo di rendere maggiormente «bancabili» i crediti verso lo Stato. In sostanza, sarebbe certo che l'attuale credito alle imprese derivante dal factoring, stimato da Banca d'Italia in 10 miliardi annui, verrebbe a mancare a fronte della promessa che - prima o poi - lo Stato pagherà.
Un secondo elemento cui andrebbe data la giusta attenzione riguarda un'anomalia, tutta italiana, che interessa uno dei settori maggiormente colpiti dal ritardato pagamento dei debiti, cioè la Sanità, che conta per quasi due terzi dell'intero fenomeno. Attualmente, in base alla indicazioni informali di Banca d'Italia, agli istituti che acquistano crediti dalle imprese per finanziare i ritardi di pagamento nel settore sanitario è richiesta una ponderazione sul capitale di vigilanza pari al 50-100 per cento. Questo significa che le operazioni di cessione costringono le banche a un assorbimento patrimoniale elevatissimo, di fatto bloccando moltissime risorse altrimenti disponibili per le imprese stesse. In Francia e Spagna, solo per fare un paio di esempi, gli accantonamenti richiesti sono pari, rispettivamente, allo 0 e al 20%: una situazione che favorisce enormemente l'afflusso di capitale alle imprese.
La via per una soluzione immediata per le imprese, ma graduale per i conti pubblici, esiste ed è quella di passare non dall'Unione europea, ma dalla Banca centrale europea e dalla Banca d'Italia, allineando gli assorbimenti patrimoniali delle banche a quelli degli altri Paesi europei, evitando così pericolosi effetti boomerang o incomprensioni da parte degli investitori internazionali.
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