Milano - Ci pensavano da un po', Niccolò Ghedini e Piero Longo, al gesto coreografico di togliersi la toga e lasciare l'aula. E ieri il gran momento arriva. Dall'inizio della campagna elettorale i due legali di Silvio Berlusconi covavano la convinzione che i tre processi milanesi in corso contro il Cavaliere fossero pronti per essere usati come un'arma impropria in vista delle elezioni, con ritmi calibrati apposta per condizionare il voto. In due processi su tre, alla fine, la bomba è stata disinnescata e si è trovato un accordo per andare al dunque dopo le elezioni. Ma ieri la difesa dell'ex premier va a sbattere frontalmente contro la Corte d'appello del processo per i diritti tv. È l'unico processo dove Berlusconi ha già dovuto incassare una condanna (quattro anni per frode fiscale), che potrebbe diventare definitiva a breve. Ed è l'unico processo dove i giudici rifiutano anche ieri di considerare legittimo l'impedimento dell'imputato, bloccato a Roma dalla campagna elettorale. Si vada avanti, ordina la Corte d'appello. Una riunione di partito non è un impegno istituzionale.
Apriti cielo. Ghedini, che non è di solito un tipo emotivo, va su tutte le furie. Altro che «leale collaborazione» tra avvocati e giudici, dice: qua ci si chiede una collaborazione a senso unico, in cui le uniche esigenze di cui si tiene conto sono quelle del tribunale, e i diritti civili dell'imputato sono «in non cale», modo garbato per dire che la Corte se ne infischia. Non siete gli unici qua dentro a rappresentare una istituzione, dice Ghedini; se questo è il vostro modo di condurre il processo, non si capisce cosa stiamo qui a fare. È la premessa di quello che subito dopo dice il suo collega Piero Longo: ce ne andiamo dall'aula. Per il momento nominiamo un sostituto. Ma discuteremo con Berlusconi se sia il caso di rinunciare al mandato difensivo.
La Corte non sembra presa alla sprovvista da quanto accade. Anzi: fin dal mattino era stato precettato dalla cancelleria un difensore d'ufficio, con l'ordine di restare in aula pronto ad una eventuale nomina. Meno preparati, forse, i giudici erano a quanto succede dopo. Il procuratore generale Laura Bertolè Viale, cui i giudici volevano dare la parola per la requisitoria, si dissocia dalla linea dura della Corte, che ha reso irrespirabile il clima in aula: e, a sorpresa, fa propria la richiesta a Alessandra Galli, presidente della Corte, perché torni sui suoi passi e accolga il rinvio. Oltretutto la prescrizione del reato si sarebbe congelata, e quindi l'imputato non avrebbe tratto alcun giovamento indebito dalla moratoria elettorale.
A questo punto la Corte torna a rinchiudersi in camera di consiglio. La discussione tra i tre giudici dura a lungo, e potrebbe essere un sintomo di dissidi interni. La retromarcia è impensabile. Ma anche ordinare all'accusa di pronunciare la sua requisitoria in un'aula vuota (anche gli avvocati degli altri imputati se ne sono andati per protesta) segnerebbe un'escalation dello scontro polemico con Berlusconi e il suo staff, facendogli raggiungere un livello d'asprezza di cui la Galli e i suoi colleghi faticano a prendersi la responsabilità.
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