Facciamo ridere. E il bello è che ormai lo sanno anche gli scafisti. Talmente scassata è la nostra Giustizia; così improbabile è diventato finire in carcere (e restarci, soprattutto) per reati che non siano di sangue, che siamo diventati lo zimbello del Maghreb. Con tutto il rispetto per il Maghreb, mancherebbe.
«Ci mettono in carcere? E chi se ne frega. Qui siamo in Italia. Un paio di giorni e ci mettono fuori
». Così disse il pezzo di malacarne egiziano al padre e ai fratelli, tutti nel ramo del commercio di carne umana, vagamente intimoriti -il padre e i fratelli- dalla faccia feroce dei poliziotti di Ragusa che li avevano appena arrestati con l'accusa di avere traghettato a Pozzallo, lucrando sulle loro sventure, 281 poveri cristi. Purtroppo ha ragione lui, il grande mascalzone egiziano di cui le cronache non ci forniscono neppure il nome (per farci che, poi?) e non sai più se quella che ti monta dalla bocca dello stomaco è più una sensazione di rabbia o di vergogna. Perché la verità è questa. Che facciamo ridere.
Strano, però. Condannati dalla Ue, e cazziati un giorno sì e l'altro pure dal presidente Napolitano per lo stato vergognoso delle nostre carceri (che non sono prive di magagne, certo) veniamo considerati dai delinquenti di ogni quadrante, compresi i commercianti di carne umana che vanno e vengono dallo Stretto di Sicilia come una specie di Bengodi. Tv color, doccia e pasti abbondanti. Ma basta avere un po' di pazienza. Perché dura poco, come diceva la faccia ghignante del sopracitato delinquente. E se invece, tanto per cambiare, gli si facesse sapere, affiggendo qualche manifesto negli angiporti delle contrade nordafricane che dal primo giugno, butto lì a caso una data, gli scafisti si fanno 5 anni di carcere vero: cioè 1825 giorni di detenzione, ancorché con doccia, tv color e pasti abbondanti, invece della tazza di cuscus e pecora bollita che rimedierebbero dalle parti loro in un fetido buco all'aroma di piscio?
La storia odierna, che arriva da Pozzallo, è esemplare. Dunque ci sono sette egiziani, compreso un ragazzino di 14 anni, fermati dalla polizia che li ha individuati come gli scafisti di uno degli ultimi sbarchi. Quattro dei sette appartengono allo stesso nucleo familiare. C'è il padre, e ci sono tre dei suoi figli, quattordicenne compreso. Per tutti, l'accusa è di associazione a delinquere finalizzata al favoreggiamento dell'immigrazione clandestina). «Per loro era una tradizione di famiglia -ha detto il commissario capo Nino Ciavola -. Il padre e i figli gestivano il traffico di migranti da tempo. Un affare di famiglia che fruttava migliaia di euro».
Negli uffici della Mobile i sette vengono identificati e a ciascuno viene letto il capo d'imputazione che, per legge, viene tradotto dall'italiano e viene letto agli accusati nella loro lingua, l'arabo. È a questo punto che sul volto di qualcuno dei sette si dipinge un vago disappunto. Ma ci pensa il figlio grande del «raìs» a stemperare la situazione. Ed eccoci al gabbo aggravato dalla beffa. «Tranquilli, ragazzi- dice il facciatosta, incurante del fatto che c'è lì presente un tipo che l'arabo lo sa-; tranquilli, che qui siamo in Italia. Ci tengono qualche giorno, ma poi ce ne andiamo a casa, liberi
»
Liberi come gli altri che li hanno preceduti, compresi prevedibilmente i due, un tunisino e un marocchino, accusati di avere condotto la carretta colma di 411 migranti di origini siriana ed eritrea, tra cui 58 donne e 112 minori, 20 dei quali neonati, arrivati or è qualche giorno.
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