Anche Scalfari l'ha capito: i pm sbagliano

Anche Scalfari l'ha capito: i pm sbagliano

Non è mai troppo tardi. La scoperta dell'acqua calda può arrivare perfino sul crinale glorioso degli ottantotto anni. E a quell'età veneranda, può capitare di entrare in rotta di collisione con magistrati di lungo corso, come si va a sbattere contro un iceberg, e si può essere criticati, attaccati, strattonati come i modesti peones di marca berlusconiana che in questi lunghi anni si sono messi di traverso agli eccessi di certa politica giudiziaria. Eugenio Scalfari la sua linea d'ombra, come direbbe Conrad, l'ha superata e risuperata fra domenica e mercoledì.
Intendiamoci: l'acqua che la sua penna di rabdomante ha fatto sgorgare porta direttamente al Quirinale, ma il solco della polemica è quello già tracciato in tantissimi duelli che dai tempi di Mani pulite hanno visto contrapposti politici e vip vari finiti nudi come vermi nei brogliacci di questa o quella indagine, e pm d'assalto, sempre pronti a rilanciare in nome della superiore esigenza di giustizia.
La scintilla scocca a proposito delle telefonate, intercettate, fra il capo dello Stato e l'ex vicepresidente del Csm Nicola Mancino, indagato per falsa testimonianza per la presunta trattativa fra pezzi delle istituzioni e Cosa nostra. Quel che nessuno immaginava è che Scalfari nel suo sermone domenicale si sarebbe schierato contro il partito delle procure. Sorpresa. Infatti quando i nastri, e con i nastri i tabulati, gli sms, perfino i video, raccontavano in tempo reale quel che avveniva a Palazzo Grazioli, ad Arcore o a Palazzo Chigi, perché c'era solo l'imbarazzo della scelta, Scalfari non si preoccupava. Non lo turbava l'idea che venissero carpiti pure i gemiti e i sospiri e i respiri dentro la casa di un leader politico protetto, sulla carta e solo sulla carta, dall'immunità. O forse riteneva eresia violare il sacro recinto delle procure. Oggi, oggi che al centro della querelle c'è Giorgio Napolitano e non più il Cavaliere, l'eresia non c'è più. E il fondatore di Repubblica ingaggia una battaglia muscolare senza se e senza ma. Domenica spara, dunque, la prima bordata: «Quando qualche settimana fa - scrive Scalfari - Nicola Mancino chiese al centralino del Quirinale di metterlo in comunicazione con il presidente, gli intercettatori avrebbero dovuto interrompere immediatamente il contatto. Non lo fecero». E, infatti, quelle chiamate sono state ascoltate. Scalfari non ha dubbi: si tratta di «un illecito gravissimo». «Ancora più grave - prosegue l'articolo - quando il nastro fu consegnato ai sostituti procuratori che lo lessero, poi dichiararono pubblicamente che la conversazione risultava irrilevante ai fini processuali, ma anziché distruggerlo lo conservarono nella cassaforte del loro ufficio dove tuttora si trova».
Verrebbe da dire: dov'è la novità? È da molti anni che le intercettazioni sono mangime speciale per i giornali e da molto tempo anche i politici coperti da immunità vengono catturati nei loro colloqui, utilizzando come un cavallo di Troia le utenze dei loro interlocutori. Si tratta, naturalmente, di intercettazioni indirette e occasionali, ma una consolidata giurisprudenza le inserisce nel circuito processuale purché si abbia almeno il riguardo di chiederne l'utilizzabilità al Parlamento. Giusto l'altro ieri, al processo Ruby, Ilda Boccassini ha provato a fare domande su tre telefonate, trascritte sfruttando l'interpretazione più liberal, ma è stata stoppata dal tribunale proprio perché non aveva chiesto il permesso alle Camere.
Scalfari scopre, dunque, l'indignazione, ma la prima puntata non chiude la guerra. Ieri è il procuratore di Palermo Francesco Messineo a rimettere sulla tavola la tovaglia macchiata della distinzione fra le intercettazioni dirette e quelle indirette. Insomma, per Messineo non si potevano carpire le parole di Napolitano piazzando le cimici al Quirinale, ma se ad essere spiato era Mancino allora tutto va bene. Esattamente come è capitato e continua a capitare per Berlusconi e tanti altri parlamentari, riparati dietro uno scudo che è peggio di un colabrodo. Barbapapà replica asserragliandosi sulle mura del Quirinale: «Esiste lo spirito dell'ordinamento che fa comunque divieto di violare le prerogative costituzionali del capo dello Stato. Quindi: nessuna norma che autorizzi l'intercettazione indiretta e occasionale». Certo, il Quirinale è il sancta sanctorum delle istituzioni, ma il principio dovrebbe valere anche al di là dei saloni del Colle. Solo che quando si prova a mettere mano alla legge e alle sue interpretazioni, allora buona parte della classe politica e giornalistica inizia a strillare contro il pericolo delle leggi bavaglio. E tutto si blocca.
Antonio Ingroia ha scritto addirittura un libro, C'era una volta l'intercettazione, per denunciare lo snaturamento della norma che in realtà non è mai stata cambiata. Ed è proprio Ingroia a punzecchiare Scalfari, ai microfoni della Zanzara: «Dispiace che una padre del giornalismo sia incorso in questo grave infortunio. Il Presidente della Repubblica ha le stesse garanzie dei parlamentari per le intercettazioni. Ma non è laureato in giurisprudenza e glielo possiamo perdonare».

«Mi sono laureato in giurisprudenza nel 1946 - replica lui immergendo tutta la barba nell'indignazione - con il voto di 110 e lode. Se la raccolta di notizie del dottor Ingroia porta a risultati così completamente infondati, questo non è certo un segnale rassicurante sulle capacità del sostituto procuratore».

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