Gli architetti scoprono la Cina «È la nuova terra dei sogni»

Gli architetti scoprono la Cina «È la nuova terra dei sogni»

Se ne sono accorti tutti con le Olimpiadi. Il mondo intero ad ammirare il Nido d’uccello, lo stadio immenso costruito a Pechino in quattro anni appena, una scultura per ospitare i Giochi, sì, ma soprattutto un monumento della Cina a sé stessa. Potente in tutto: nelle idee, nei mezzi, nel portafoglio, nella manodopera infinita e a costo ipercompetitivo, nei tempi impossibili in qualunque altro paese. Ecco, davanti al potere esibito del Nido, si è capito, per chi ancora non lo avesse capito, che l’ultima frontiera dell’architettura è la Cina, dove le autorità sono disposte a finanziare progetti che altrove sarebbero scartati, perché troppo azzardati, troppo costosi, irrealizzabili insomma.
A Shenzhen, dice l’International Herald Tribune, c’è un’opera che è il simbolo della rinascita architettonica del paese: il Vanke Center di Steven Holl, un complesso ecosostenibile detto il «grattacielo orizzontale» capace di integrare infrastrutture, paesaggio, edifici, attenzione all’aspetto comunitario e sociale. In Europa e in America Holl non ha mai potuto realizzare le sue idee urbanistiche più rivoluzionarie: solo la Cina gli ha dato l’opportunità. Perché la Cina che non lascia liberi di parlare, scrivere, dipingere i suoi concittadini, non pone freno alle ambizioni e all’espressione, se si parla di costruire edifici. O magari anche città intere, tirate su dal nulla. È per questo che molti architetti e designer stranieri si spostano in oriente. E lo fanno anche gli italiani, non solo nomi affermati, ma soprattutto i giovani. Come quelli dell’università di Pavia: la facoltà di Ingegneria edile-Architettura ha festeggiato a fine febbraio le prime doppie lauree italo-cinesi, riconosciute in entrambi i paesi. È stato Angelo Bugatti, presidente della facoltà, a firmare l’accordo con la Tongji university di Shanghai (l’ateneo di Wang Shu, per dire, l’architetto che ha appena ricevuto il premio Pritzker, è anche questo è un segnale): «Lavoro da 15 anni coi cinesi, attraverso workshop internazionali. E poi per l’Expo di Shanghai, per la quale abbiamo fatto vari progetti». Nel 2010 la svolta: l’Italian Chinese curriculum (i corsi sono internazionali, quindi in inglese, «ho docenti che a cinquant’anni si sono messi a studiarlo per tenere le lezioni»), un biennio speciale con trenta studenti, metà italiani e l’altra metà selezionati in Cina fra i laureati della Tongji, che pochi giorni fa hanno ottenuto la loro doppia laurea, dai due rettori. Il passo in più è il trasloco degli studenti: «Al quinto anno vanno tutti a Shanghai, i primi partiranno in agosto. Alcuni laureati lavorano già là, fanno il tirocinio negli studi di Shanghai, un paio hanno anche lo stipendio, mille e duecento euro, in Cina non sono pochi».
Il trucco è ovviamente la prospettiva: «È quella che voglio dare ai miei studenti, non solo in Europa» dice Bugatti. «Noi vendiamo le idee della città storica, loro ci danno una nuova dimensione progettuale e una spinta alla creatività spaziale, che non è fatta di fantasia, ma dalla capacità di riconoscere nuove possibilità di uso dello spazio». Per esempio: a Shanghai, nello stesso edificio, c’è lo studio del pittore, al piano superiore c’è il negozio in cui vende, e poi più su ancora la sua abitazione. Studenti italiani e cinesi hanno progettato insieme, è vero che l’architettura «è nel nostro dna» ma loro, i cinesi, «si sforzano di inventare nuovi spazi in modo straordinario», lavorano e fanno ricerca su «altre dimensioni, altre luci, altre ragioni di città». Immagini nuove, linguaggi diversi che però possono cooperare: «Il progetto nuovo non nasce dall’archistar ma dalla collettività». È vero che a volte gli italiani sono fin troppo orgogliosi della storia alle loro spalle: «Ai miei studenti dico: se non c’è curiosità, state a casa» dice Bugatti.

«Ma è anche vero che i nostri vincoli mentali, per loro e tramite loro, possono diventare opportunità». Un’isoletta tutta nuova da riempire, per esempio, come fosse un villetta da costruire: se la Cina è stata ribattezzata «il sogno degli architetti», un motivo ci sarà.

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