Erano le 12.37 del 10 luglio 1976 quando un boato destò chi si trovava a Seveso e dintorni. Improvvisamente, in quella torrida estate, si levò una densa coltre di fumo bianco, una nuvola sporca che sembrava potesse far scoppiare i camini di un'azienda chimica, l'Icmesa di Meda, provincia di Milano. Da lì a poco si sarebbe capito che si trattava del più grande disastro ambientale del nostro Paese.
L'Icmesa, acronimo di Industrie Chimiche Meda Società Azionarie, era una fabbrica chimica svizzera. Quel 10 luglio cadeva di sabato ed era chiusa. Per questo nessuno si accorse che il sistema di controllo di un reattore chimico destinato alla produzione del triclorofenolo, un componente usato per i diserbanti, era andato in avaria provocando la fuoriuscita di quella che, da lì a poco, venne chiamata la nube tossica di Seveso. Ma se da una parte il sistema automatico di sicurezza evitò l'esplosione del reattore, dall'altra le alte temperature causarono la trasformazione del triclorofenolo in diossina, sostanza altamente tossica. Quella improvvisa nube bianca fuoriuscita dall'azienda svizzera iniziò il suo tremendo «viaggio inquinante» nelle zone vicine tra cui Seveso che, colpa il vento, fu la cittadina maggiormente colpita. Con i suoi abitanti. Vicino all'Icmesa, una bambina, Stefania di due anni e mezzo, in quel momento stava giocando in giardino con la sorella Alice. Il reattore A101 distava 300 metri e le due piccole nemmeno si accorsero che la nube venefica stava posandosi su di loro. Pochi giorni e Stefania Senno si ritrovò il volto devastato dalla cloarcne una gravissima malattia della pelle. Le sue foto divennero il simbolo della tragedia.
Le abitazioni comprese nella zona più colpita furono evacuate e abbattute. Seveso divenne una città fantasma e i suoi abitanti costretti a fuggire.
Stefania di tutto questo ha pochi ricordi, resta una profonda ferita nell'anima. Rammenta l'ultimo incontro con i suoi compagni d'asilo. Lei amava giocare con il suo coniglietto ma lo dovette lasciare lì, amava la sua casa ma non la rivide più.
L'allora presidente del consiglio Giulio Andreotti autorizzò aborti terapeutici per tutte quelle donne che al momento del disastro avevano respirato il veleno. Una decisione che scatenò aspre polemiche. La famiglia Senno, intanto, si trasferì in provincia di Treviso. Qui, anno dopo anno, la bambina crebbe cercando di costruirsi una vita. Una vita durissima fatta di operazioni di ricostruzione facciale ma zeppa pure di umiliazioni. Stefania era una ragazzina normale, amava gli animali e giocare con i coetanei ma non ci mise molto a comprendere come il suo viso sfigurato mettesse a disagio gli altri. E spesso diventasse oggetto di scherno. «I ragazzi che mi guardavano si mettevano a ridere e ci ho messo anni a diventare consapevole di quello che mi era capitato». Una sofferenza interiore terribile, che ha lasciato cicatrici indelebili. Anni che hanno segnato quella bambina, oggi donna, ma che le hanno anche generato un coraggio ed una determinazione senza eguali. Ha dovuto aspettare di diventare grande, Stefania, per iniziare le operazioni che le attenuassero le ferite provocate da quella maledetta diossina. Ma in questo percorso ha anche incontrato persone speciali. Come la titolare della ditta, dove lavora oramai da anni e come il suo chirurgo Doriano Ottavian che l'ha operata ben cinque volte permettendogli oggi di essere oggi una bella donna.
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