Bce: «Troppi disoccupati, fate le riforme»

Bce: «Troppi disoccupati, fate le riforme»

Sono 17 milioni: non si tratta dell’esercito cinese, ma dei disoccupati dell’Eurozona. Tanti, troppi, eppure destinati ancora a crescere sotto il peso di una crisi infinita. Da almeno un paio d’anni, quando al timone c’era ancora Jean-Claude Trichet e già si sentiva parlare di jobless recovery (cioè della ripresa incapace di generare nuovi posti), la Bce osserva il fenomeno con crescente preoccupazione. La stessa espressa ora da Mario Draghi, che affida al Bollettino mensile dell’istituto di Francoforte il compito di lanciare un allarme forte e chiaro: «Le condizioni nei mercati del lavoro nell’area euro continuano a deteriorarsi», e sul breve termine si profila «un ulteriore peggioramento». Nessuna stima, ma l’attuale 10,8% di gente a spasso, con punte del 21% tra gli under 25, è già più che una spina nel fianco. Anche in Italia, dove nonostante il tasso di disoccupati sia pari al 9,3% e dunque ancora sotto la media, lo scivolamento in recessione rischia di accentuare un fenomeno carico di incognite sia sotto il profilo economico, sia sociale, ancor prima che la riforma del mercato del lavoro del governo Monti possa portare qualche beneficio. Il new deal dell’occupazione non è comunque rinviabile: «Riformare il lavoro è difficile - ha affermato il direttore generale del Fondo monetario internazionale, Christine Lagarde - . Ma è essenziale per la competitività e per generare più opportunità soprattutto per i più giovani».
La ricetta proposta dalla Banca centrale per riportare Eurolandia sui binari della crescita economica, condizione necessaria per creare occupazione, è composta infatti da un mix di riforme strutturali e di feroce applicazione nel risanamento dei conti per «ripristinare posizioni di bilancio solide». Il faro deve essere il Fiscal compact che impone il pareggio di bilancio, ma la Bce chiede anche di più. Chiede un «freno al debito». Soprattutto ai Paesi come il nostro, appesantiti da un fabbisogno di rifinanziamento pubblico «particolarmente rilevante», pari o superiore al 20% del Pil. E cosa succede quando la sete di fondi è così alta? Semplice: si diventa «vulnerabili a improvvise variazioni dei tassi di interesse e del clima di mercato». Anche se poi il Bollettino mette in relazione la recente fiammata degli spread di Italia e Spagna non con la situazione dei rispettivi debiti sovrani, ma con la «riconsiderazione delle prospettive per la crescita nell’area dell’euro». Ieri, a ulteriore dimostrazione dell’umore variabile dei mercati, le Borse sono prima scese e poi risalite spinte da Wall Street (+1,2% Milano grazie a un nuovo recupero dei bancari), mentre il differenziale tra Btp e Bund si è raffreddato a 362 punti. Non ha insomma lasciato alcun segno l’asta poco brillante con cui il Tesoro ha collocato titoli poliennali per 2,884 miliardi (contro un ammontare massimo previsto pari a 3 miliardi) a un tasso del 3,89%, livello più elevato dallo scorso gennaio e in netto aumento rispetto al 2,76% di metà marzo. C’è stato un «buco» nelle richieste? «Abbiamo fatto la scelta di non prendere tutta la domanda che c’era - ha spiegato il viceministro dell’Economia, Vittorio Grilli - perché non abbiamo questa urgenza di fare funding a tassi che, secondo noi, non sono quelli giusti».
Di fronte alla volatilità dei mercati e a causa dei problemi di finanziamento del debito sovrano, la Bce indica ai governi un percorso a ostacoli che impone «altri notevoli sforzi di risanamento per un periodo di tempo prolungato». L’obiettivo deve essere quello di abbattere il rapporto debito-Pil «decisamente» al di sotto del 60%. Ai Paesi sottoposti a tensioni di bilancio, è però richiesto un impegno aggiuntivo: «conseguire e mantenere a lungo avanzi primari pari o superiori al 4% del Pil». Uno sforzo da Sisifo per l’Italia, alle prese con un debito del 120%. L’Ocse, tuttavia, ritiene che il nostro Paese sia perfino in grado di far scendere l’indebitamento al 50% entro il 2050 attraverso correzioni annue stimate al 2,57% del Pil.

Solo tre Paesi (Danimarca, Svizzera e Svezia) hanno minori necessità di consolidamento. E in ogni caso, secondo l’organizzazione di Parigi, la necessità di un riassetto di bilancio è in Italia «meno urgente» che altrove.

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