
Milano Chissà dove è finito, il vascello fantasma della Lega Nord, lo yacht milionario che Francesco Belsito - vulcanico ex tesoriere del Carroccio, l'uomo dei diamanti e dei conti a Cipro - avrebbe comprato con i fondi neri a Riccardo Bossi, primogenito del Senatùr. «The family», si chiamava la cartelletta in cui Belsito custodiva le spese fatte per Bossi e parentado: cure odontoiatriche, assicurazioni, la laurea burla del Trota. Ora si scopre che c'era dell'altro.
Che lo yacht esista o meno, ancora non è certo. Se ne parla in una telefonata intercettata, tra due dei protagonisti del comitato d'affari ruspante e chiacchierone che si era impiantato nei pressi della cassa leghista. Ma quella telefonata per la Procura di Milano dimostra che il repulisti a colpi di ramazza che Bobo Maroni lanciò dopo l'esplosione dello scandalo non ha reciso del tutto i legami. «L'espulsione dello stesso Belsito dalla Lega Nord ha tutt'altro che interrotto il criminoso e criminogeno rapporto tra il medesimo Belsito e Girardelli, da ultimo incentrato sulle questioni relative a uno yacht del valore di 2,5 milioni di euro che Riccardo Bossi, figlio di Umberto Bossi, avrebbe a suo tempo acquistato avvalendosi di un prestanome grazie a un'ulteriore appropriazione indebita di Belsito».
Ieri mattina Belsito finisce in galera, e insieme a lui finiscono nel mirino delle indagini altri esponenti di questa combriccola che - ancora non si sa bene come - aveva capito che dietro lo scudo di Alberto da Giussano ci si poteva nascondere per fare buoni affari: «Nessuna delle persone associate sembra dotata di una specifica professionalità che non sia quella di trovare o approfittare di occasioni illecite di guadagno», scrive il giudice preliminare Gianfranco Criscione. Associazione a delinquere finalizzata al riciclaggio, all'appropriazione indebita e alla truffa ai danni dello Stato per 8 milioni: queste sono le imputazioni. Una certa fumosità di fondo, su quale fosse il core business della banda, non viene dissipata dalla lettura dell'ordinanza di custodia, di Belsito - piazzato dalla Lega nel consiglio d'amministrazione di Fincantieri - si dice che era «in grado di influenzare le decisioni di istituzioni e di grandi imprese pubbliche e private, quali ad esempio Siram spa, Fincantieri spa e Grandi navi veloci spa, in forza del potere politico derivante dalle cariche rivestite». Ma quanti e quali fossero gli appalti effettivamente conquistati non è chiarissimo. Mentre chiaro è invece che per la Procura le mani della banda Belsito si erano allungate sul malloppo del finanziamento pubblico del partito di Bossi, si parla di «gestione del tutto abusiva e sregolata dei fondi della Lega Nord», utilizzato per investimenti in fondi, in preziosi, in business in Argentina. E dove, curiosamente, si mischiavano ai soldi della 'ndrangheta.
È questo l'aspetto forse più inquietante dell'operazione di ieri, perché torna a mettere in evidenza l'asse che collega gli affari della Lega a quelli del crimine organizzato calabrese. In manette finisce il genovese Romolo Girardelli, in passato indagato e assolto per riciclaggio per conto del clan Di Stefano; indagato è Bruno Mafrici, calabrese, dottore in legge, che a Milano si appoggiava in via Durini, nello studio Mgm che per la Procura era «la sede dell'associazione» a delinquere. E di fatto la retata si incrocia con altri passi avanti che la Procura di Reggio Calabria starebbe facendo sulla faccia non illuminata degli affari di Belsito: che a Reggio è indagato anche per accesso abusivo a sistemi informatici, per il dossier che preparava su Roberto Maroni.
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