La festa. I colpi. Le urla. A rivedere quelle immagini, immortalate dai flash dei fotografi, vengono i brividi. Sembra di assistere ad un'esecuzione in tempo di guerra.
Luigi Preiti prende la mira e spara quasi a bruciapelo al brigadiere Giuseppe Giangrande. Una scena terribile. Solo che non siamo nel ghetto di Varsavia durante l'occupazione nazista: no, è il 28 aprile 2013 e ci troviamo nel cuore del potere, davanti a Palazzo Chigi per la cerimonia di insediamento del governo Letta. Preiti torna in aula per provare a raccontare il proprio rimorso e ricevere l'inevitabile condanna: «Chiedo scusa a tutti. Vorrei essere io in ospedale al posto del carabiniere ferito. Mi dispiace». Poi arriva la sentenza, mitigata dal rito abbreviato: 16 anni. Due in meno di quella proposti dall'accusa. Tutto secondo copione.
La tragedia di Palazzo Chigi può andare in archivio con l'inevitabile coda di inquietudine che si porta dietro. Quel 28 aprile è un momento collettivo, entrato quasi in diretta nelle case di tutti gli italiani. La cerimonia viene funestata dal gesto sconsiderato del disoccupato calabrese emerso dal grande pentolone delle insorgenze meridionali. È storia antica e sempre attuale: la disperazione del Sud produce da secoli rivolte e briganti, alimentando la criminalità. Dentro questo impasto di difficile definizione si colloca il dramma di Preiti che quella mattina entra nella zona rossa dei Palazzi con l'intento di compiere un «gesto eclatante in un giorno importante». «Non odio nessuno ma sono disperato», balbetta - dopo essere stato afferrato e scaraventato a terra - l'uomo che poi declina meglio il proprio progetto: vorrebbe colpire i politici, ma visto lo schieramento di polizia ripiega sul carabiniere. E Giangrande, colpito al collo, subisce danni gravissimi e irreparabili, diventando tetraplegico.
Lo sparatore ha una storia e una collocazione che si prestano a quel finale insensato: ha 49 anni, ha perso il lavoro, si è separato. Trovare una pistola sul mercato clandestino calabrese non è un'impresa. Il suo presente vuoto affonda radici invisibili ma tenaci dentro pulsioni ancestrali. Poi, intendiamoci, ci sono i guai personali.
Una consulenza di parte evidenzia la depressione e l'uso smodato della cocaina proprio per combattere la patologia e tirarsi su dal cratere. Inutile cercare complicità o evocare burattinai, manine o manone. Conviene lasciar perdere, per una volta, la solita dietrologia all'italiana che abbraccia tutto senza spiegare niente. Preiti fa tutto da solo, come gli anarchici dell'Ottocento che però erano sorretti dalla corazza di un'ideologia inscalfibile. Qua siamo nella terra di nessuno di una personalità fragile, immersa in un contesto altrettanto insicuro e problematico. Dove la delinquenza da sempre controlla pezzi della società.
In aula il Pm chiede 18 anni per una sfilza di reati, a partire naturalmente dal più grave, il tentato omicidio. E sempre in udienza emergono alcune telefonate arrivate alla Presidenza del consiglio nelle ore precedenti l'attentato: «Aiutate la Calabria», «Fate qualcosa per la Calabria». C'entrano qualcosa con la spedizione del disoccupato di Rosarno? Pare di no, a seguire troppi fili si perde il bandolo della matassa.
Certo, la sparatoria dentro la cornice di una cartolina, fra gli edifici più importanti di Roma e gli apparati della sicurezza, pone interrogativi angosciosi e qualcuno è convinto che, solitario o no, Preiti sia la spia di un disagio generale, del malessere che avanza, della rabbia che non trova sfoghi. Sociologia e criminologia. Proiezioni azzardate. C'è chi pensa che la violenza di questi tempi sia a un passo dall'esplodere. E mette in guardia le istituzioni.
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