Alla vigilia, era tutto un dilettarsi su ipotesi catastrofiche, con minime variazioni sul tema. Una sorta di contabilità vagamente cimiteriale ispirata dal finis vitae del governo, una gara a quantificare il crollo che avrebbe marchiato il sicuro black monday della Borsa. Due? Tre per cento? Magari quattro? E lo spread? Minimo sopra i 300 punti, che te lo dico a fare. È davvero un mestieraccio, quello dei previsori. Perché, talvolta, si rischia qualche cantonata grossolana. Capita. È successo ieri: a fine giornata lo score di Piazza Affari si è fissato a -1,2%, un calo assolutamente fisiologico e perfino inferiore alla flessione di venerdì scorso (-1,3%), maturato nonostante i titoli delle banche abbiano segnato un ribasso del 2,2% per buona parte ascrivibile al -3,5% rimediato da Intesa SanPaolo in seguito all'uscita di scena del numero uno, Enrico Tommaso Cucchiani. Non solo: dopo un picco in prossimità dei 300 punti nella prima fase di scambi, il differenziale di rendimento tra Btp e Bund ha chiuso a quota 265, appena un punto sopra il valore dell'ultima seduta della scorsa settimana.
Insomma: tanto timore per nulla. Ignorata perfino la minaccia da parte dell'agenzia Fitch, la minore delle tre sorelle del rating, di un taglio alla valutazione dell'Italia in caso di caduta dell'esecutivo. In realtà, ad appesantire il listino azionario è stato soprattutto il pericolo di shutdown negli Stati Uniti, avvertito infatti su tutti i mercati: da Oriente, dove Tokyo è scesa di un 2% secco, a Occidente, con ribassi attorno allo 0,8% in Europa e a Wall Street. Come era già accaduto con la pantomima sul fiscal cliff, il cosiddetto precipizio fiscale, negli Usa è in atto da settimane un braccio di ferro tra democratici e repubblicani, incapaci di trovare un'intesa sul bilancio. Il grand old party subordina la firma del budget al congelamento, per un anno, della riforma sanitaria. Essendo una sua «creatura», Obama non ne vuole sapere. Un dialogo tra sordi. Le lancette intanto corrono, e in assenza di un accordo in extremis da oggi l'America farà i conti con i cartelli «closed» appesi alla porta d'ingresso degli uffici federali, con centinaia di migliaia di lavoratori lasciati a casa. I danni economici sono stimati in centinaia di milioni di dollari.
Ma perché quest'impasse inquieta i mercati, finendo per mettere in secondo piano la crisi di governo in Italia? È presto detto: a rendere particolarmente alta la tensione è la convinzione che lo scontro attuale sia soltanto un'anteprima della prossima battaglia, ancora più carica di rischi e conseguenze per l'economia. L'amministrazione Obama deve ottenere dal Congresso, entro metà ottobre, un accordo sull'innalzamento del tetto del debito federale, oggi fermo a 16.700 miliardi di dollari. Lo spettro in questo caso è un vero e proprio default degli Stati Uniti, che diventerebbero incapaci di far fronte ai loro obblighi. Sul debt ceiling il Congresso è peraltro recidivo: nell'estate del 2011, il patto per innalzare il tetto del debito venne sottoscritto soltanto un giorno prima del default del 2 agosto. Un tentennamento costato comunque caro: Standard&Poor's decise infatti di privare gli Usa della tripla A, fatto mai accaduto nella storia americana.
Al netto dello stallo sul budget statunitense, resta da chiedersi perché la crisi di governo non abbia pesato più di tanto sulla nostra Borsa e sullo spread. La risposta più ovvia è che i mercati avevano già metabolizzato l'evento tra giovedì e venerdì della settimana scorsa.
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