Possono dormire tranquilli, tutti. I giudici di primo grado che hanno impiegato diciassette anni per emettere una sentenza, i loro colleghi d'appello che per altri nove anni hanno tenuto il fascicolo immobile come Chiellini in area. La legge che punisce i magistrati «per dolo e colpa grave» è destinata a svanire nel nulla, precipitosamente sconfessata dal governo Renzi dopo l'insurrezione dei giudici di tutta Italia. E anche se quella legge dovesse per qualche miracolo vedere la luce, neanche essa punirebbe il vero delitto, quello che giorno per giorno affossa la giustizia italiana, tiene lontani gli investitori stranieri, genera nel cittadino qualunque una sfiducia ormai irrimediabile, ma di cui nessuno è mai colpevole: il delitto dei tempi folli, dei riti bizantini, della pigrizia parastatale con cui nei tribunali italiani vengono trattate le cause, come se da quei fogli di carta bollata non grondassero le sofferenze di esseri umani.
Era il pomeriggio del 7 gennaio 1984 quando a Reggio Calabria un'auto svoltò di colpo tagliando la strada a un autobus dell'Atam, l'azienda di trasporto pubblico. L'autobus, frenò di colpo e un passeggero, Michelangelo Vinacci, cadde rovinosamente a terra ammaccandosi due costole. Non sembrava niente di troppo grave: ma nei giorni successivi le sue condizioni peggiorarono, finché una crisi lipotimica e un infarto, il 19 gennaio, lo stroncarono. La famiglia fece causa all'Atam: e fin qui sarebbe una triste e comune storia di sinistri stradali, sebbene resa più interessante dal tema di fondo sollevato dai difensori dei familiari. Che chiedevano che venisse risarcito oltre al loro danno materiale, anche l'angoscia vissuta dal povero Michelangelo nei dodici giorni di agonia, la «paura di morire» che lo avrebbe accompagnato nell'ultimo tratto di vita. Quanto valgono, tradotta in lire e poi in euro, i giorni in cui la vittima «attese lucidamente la propria morte»?
Sarebbe stato un processo interessante: ma tutto ha perso stazza strada facendo, di fronte al dilatarsi a dismisura dei tempi di attesa. Mentre si aspettava che i giudici decidessero, è morta la moglie del morto, Rosa. Poi è morta anche una delle sue figlie, Rosanna. E ad aspettare l'arrivo della giustizia sono rimasti gli eredi degli eredi. Fino all'altro ieri, quando la terza sezione civile della Cassazione ha emesso, dopo trent'anni dalla morte di Michelangelo Vinacci, la sentenza che chiude la storia, dando ragione un po' all'uno e un po' all'altro. Alla fine, gli eredi e i loro eredi dovranno restituire all'Atam diverse decine di migliaia di euro, che in secondo grado avevano ricevuto per la «paura di morire» patita dal nonno: ma colpisce che a doverli scucire saranno sopravvissuti che del defunto serbano un ricordo ormai ingiallito dal tempo. Chi oggi è adulto allora era bambino, chi era adulto oggi è un vecchio.
Qua e là, nelle righe della motivazione, si coglie un certo imbarazzo dei giudici della Cassazione nel riferire i tempi biblici dei colleghi che li hanno preceduti: ma poiché si tratta appunto di colleghi, senza mai affondare la penna. Certo, si scrive che gli eredi hanno ben diritto a vedere rivalutato il risarcimento per evitar loro «una ulteriore conseguenza sfavorevole delle lentezze dell'amministrazione della giustizia». Ma come sia stato possibile che il tribunale di Reggio Calabria abbia pronunciato la sua sentenza il 25 novembre 2003, a 17 anni dall'inizio della causa, la Cassazione non lo spiega. Non spiega gli altri nove anni passati prima che la Corte d'appello di Reggio, il 10 dicembre 2012, si pronunciasse sul ricorso della famiglia.
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