Sono in minoranza assoluta: penso che sacerdoti, suore, parrocchie e comunità sparse per tutto il paese non debbano pagare l'Imu. Esattamente come i rabbini, gli imam, i monaci di tutte le religioni del mondo. Tassare la carità e la spiritualità per investire in ostriche e cozze pelose mi sembra un'idea orrenda e piuttosto rozza. Credo che il Consiglio di stato abbia fatto benissimo a respingere la proposta. Aggiungo che, in molti casi, si tratterebbe di una solenne perdita di tempo (gli economisti la definiscono partita di giro), dal momento che gli enti locali finanziano le istituzioni religiose quando si occupano molto spesso di scuola e assistenza. Quindi la tassazione, prima o poi, tornerebbe da dove è arrivata, travestita da sussidio. Ma in Italia, quando partono dei treni comunicativi, non c'è niente da fare. Perfino alcuni cardinali si sono rassegnati all'ondata emotivo-anticlericale che li sovrasta. Favoleggiare sulle ricchezze del Vaticano suona benissimo, musica per le orecchie del passante o della passante. In astratto, chi non sa e non conosce la storia italiana, li chiama «privilegi» da abolire.
La narrazione popolare immagina che ci siano tesori nascosti, rubati a chissà chi nei secoli, in grado di risolvere i problemi della nazione. Insomma, con i soldi dei preti che, come si dice a Roma, «c'hanno li meglio posti» si salverebbero d'un colpo il Pil, lo spread, il deficit. Come se fossimo ancora nello stato Pontificio. La realtà, vista da vicino, è diversa. Gli enti cattolici spogliati interamente dall'Unità d'Italia, dal demanio statale e infine dal Concordato del 1929 hanno acquisito di recente immobili, sale, garage, magazzini il cui frutto economico è spesso vicino allo zero assoluto, a fronte di costi piuttosto alti. In molti casi, quello che avanza viene reinvestito per scaldare le chiese gelide, per dare la mensa ai poveri del quartiere nella mia parrocchia, per dirne una per quelle che chiamiamo le opere di bene. Ci vuole una bella faccia tosta per tentare di togliere qualche centinaio di euro da ciascun convento, scuola, ricovero o parrocchia, per affidarlo a quei gangster che ogni giorno riempiono le cronache giudiziarie. Accidenti.
Siamo davvero convinti che il passaggio al pubblico-politico sia una garanzia? E quelle migliaia di persone in buona fede che hanno lasciato le loro eredità a suore o preti siamo sicuri che vorrebbero passarne gli utili derivanti a gentaccia che poi va a comprare barche o appartamenti alla faccia della povera gente? Già è successo, a Roma e Milano. Quando leggete le ruberie del Trivulzio, dell'istituto Ciechi, delle case delle Asl romane, quando vedete gli affitti e le vendite di favore alle segretarie, amiche e amanti dei boss regionali (sono in corso nella Capitale molte inchieste giudiziarie sulla cessione del patrimonio ex pio Istituto e mi auguro che i magistrati abbiano il coraggio di concluderle e di risarcire la Sanità laziale delle rapine degli anni passati) dovete pensare che quei beni sono stati «donati» da famiglie che non volevano lasciarli allo stato, ma alla chiesa. La mia amica Olivia Salviati per fare solo un esempio fra migliaia si batte perché torni pubblico il San Giacomo, ospedale donato da un suo antenato alla città con una destinazione umanitaria. Oggi è una cittadella abbandonata, con spazi che fanno gola a quegli amministratori pubblici di cui abbiamo già detto.
Di questi tempi, mi fido molto
più della chiesa, delle suore e dei parroci che dei vari Batman. Lasciamo qualche spicciolo nelle tasche di chi gestisce gli unici spazi di aiuto e di carità aperti a tutti e a tutte le ore.*tratto da "il Foglio" di ieri
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