Una Consulta da ribaltare

In Italia criticare la Carta è pericoloso: chi lo fa rischia di passare per nemico della Patria

La Corte Costituzionale riunita nel palazzo della Consulta
La Corte Costituzionale riunita nel palazzo della Consulta

Mercoledì sera è andata in onda la prima puntata di Virus, condotta dal nostro vicedirettore Nicola Porro su Rai 2. Tra gli ospiti, insieme con Mario Monti, Guglielmo Epifani e Massimo Giannini, c'ero anch'io. Interrogato, ho detto: «Chiunque governi è destinato a fallire e a fare la figura del fesso non tanto per proprie incapacità, quanto perché il sistema istituzionale è marcio, non funziona a cominciare dalla Costituzione».
In Italia criticare la Carta è pericoloso: chi lo fa rischia di passare per nemico della Patria. La Legge delle leggi è considerata intoccabile essendo nata dalle ceneri del fascismo, battuto dalla Resistenza eccetera eccetera. In realtà molta acqua è passata sotto i ponti dall'inizio della fase repubblicana; nel Paese tutto è cambiato tranne le regole necessarie per gestirlo. È un controsenso. Un esempio semplice. La Costituzione afferma: la Repubblica è fondata sul lavoro. Bella frase. Peccato che sia «scaduta». In effetti oggi la Repubblica è fondata sui disoccupati e sui pensionati, visto che costituiscono la maggioranza. Transeat.
Dall'inadeguatezza della Carta e delle norme che a essa si ispirano discendono mille problemi, il più grave dei quali è l'impossibilità pratica di avviare e concludere riforme in grado di innalzarci al livello di altri Paesi più dinamici. Mi rendo conto che questi sono argomenti ostici e poco appassionanti per la moltitudine dei cittadini. Commentando il mio intervento durante il programma di Porro, Monti ha osservato che attribuire la responsabilità dell'immobilismo nazionale all'inefficienza delle istituzioni significa assolvere il nostro popolo, incline all'individualismo esasperato, a chiudersi nei serragli delle corporazioni, a rifiutare la modernizzazione, a invocare la liberalizzazione di tutte le categorie eccetto quella di appartenenza.
L'ex premier ha ragione, avendo sperimentato personalmente che ogni riforma proposta viene bloccata attraverso una serie di veti incrociati, ai quali gli stessi partiti - di destra e di sinistra - soggiacciono. Ciò tuttavia non significa che il problema di aggiornare le norme fondamentali su cui si basa il funzionamento della cosa pubblica sia secondario. Ne è prova la recente decisione della Corte costituzionale di bocciare la riforma delle Province. L'eliminazione delle quali doveva avvenire 40 anni orsono, quando furono istituite le Regioni (previste dalla Costituzione). Tanto è vero che una quota cospicua di personale delle Amministrazioni provinciali fu immediatamente trasferita nei nuovi enti, la cui chiusura sarebbe dovuta avvenire contestualmente. Ma non fu così.
Il governo dell'epoca dichiarò: aspettiamo che le Regioni operino a pieno regime, poi cancelleremo le Province. È trascorso quasi mezzo secolo, ma evidentemente il rodaggio regionale non è ancora terminato. Si dà il caso che l'esecutivo abbia approvato un decreto per accelerare non dico l'abolizione ma almeno la razionalizzazione e il ridimensionamento delle Province. Ottimo. Applausi. Finalmente qualcosa si muove. Il provvedimento giunge sui tavoli della Consulta: impallinato. Perché? Il decreto non è giustificato dall'urgenza.
Da notare che esso era contenuto in una manovra denominata «salva Italia». Dobbiamo arguire che secondo i giudici salvare l'Italia non è impellente, nonostante sia unanimemente riconosciuto che stiamo sprofondando nella crisi. Farei presente che la soppressione delle Province è un affare complicato. Già, la loro esistenza e sopravvivenza è prevista dalla Costituzione. Ergo, per procedere alla loro sepoltura occorre modificare la Carta. Da ciò si evince che non dico una fesseria quando sostengo che le regole scritte dai costituenti vanno adattate ai nostri tempi ovvero riscritte alla luce delle esigenze che si sono via via manifestate nel corso degli anni. Ma questo non è possibile perché il ceto politico è ancora qui in adorazione della Costituzione, scambiata per il Vangelo.
Si cerchi allora un compromesso. Si dia cioè alla Consulta un compito aggiuntivo. Visto che si chiama appunto Consulta, perché non consultarla prima della stesura di un decreto (o di una legge) in modo che, una volta varato dal Consiglio dei ministri, non rischi la bocciatura? Se i giudici esprimessero in anticipo il loro assenso o il loro dissenso si guadagnerebbe in rapidità, evitando di rendere macchinosa la verifica di legittimità costituzionale dei provvedimenti. È inammissibile che l'apparato dello Stato sia di intralcio alla realizzazione di qualsiasi progetto. Una soluzione va trovata a ogni costo.
Ora c'è chi - e non sbaglia - propone addirittura di lasciare in vita le Province e di sopprimere le Regioni, il cui varo (unitamente alla successiva modifica del Titolo V) ha provocato un aumento mostruoso della spesa pubblica. Mi sembra però un bel sogno. Piuttosto perché non ridurre il numero delle Regioni medesime da 20 a 5 o 6? A che serve il Molise? E l'Abruzzo? A che servono la Basilicata, l'Umbria, la Valle d'Aosta, la Liguria, il Trentino Alto Adige e il Friuli Venezia Giulia? Non sarebbe meglio accorparle per aree omogenee?
Infine, c'è chi obietta: chiudere tanti enti pubblici comporterebbe il licenziamento di migliaia di dipendenti, il che sarebbe follia. Obiezione accolta. Ma per ovviare all'inconveniente c'è una strada che non impone di rinunciare alla riforma e al risparmio di denaro. Si tratterebbe di trasferire il personale in esubero presso altri settori della pubblica amministrazione, per esempio i tribunali dove si segnalano carenze di organico oppure i Comuni. Non si vuole agire d'imperio? Si intavoli un negoziato sindacale, purché non diventi un pretesto per tirarla in lungo senza combinare nulla. Il lavoro non va tolto a nessuno, ma nessuno può illudersi - in permanenza di uno stato di necessità - di avere diritto a non cambiare mansioni e sede dell'impiego.

segue a pagina 2

di Vittorio Feltri

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