Roma - È il Psi del 1976, quello della svolta dei «quarantenni», questo bislacco Pd squassato dalle correnti? Sarà Renzi, absit iniura verbis, il Bettino redivivo? E si può ripartire da lì, dall'esigenza di cambiamento, dal salto generazionale, dalla modernizzazione, dalla Grande riforma presidenzialista e dunque ancora da lui, da Bettino, che per primo ne avvertì l'urgenza e la promosse, incurante di tempi e protagonisti così ottusi e ostili?
Offre curiose suggestioni la presentazione di un libro della Fondazione Craxi, portata avanti con determinazione e grinta da Stefania, indomita ancella della «memoria libera» sul dramma umano di suo padre. Dramma che fu, in qualche modo, anche il dramma della sua politica: nata per costruire un'alternativa credibile e svecchiare l'intero angusto recinto della sinistra italiana, e finita con una salda, anche se costretta, alleanza con la Dc. Nonché con la damnatio memoriae congegnata sull'ubriacatura di Mani pulite.
La tavola dei relatori è di rango, con i dioscuri della Fondazione Italianieuropei, D'Alema e Amato, a farsi il controcanto e a mostrare tutte le perplessità e gli scetticismi sull'affrettato percorso che dovrebbe lanciare il presidenzialismo - sia pure nella versione «semi» - anche in Italia. «Non si importa una riforma come se si importasse dello champagne», chiude la porta l'ex presidente della Bicamerale che fu (e che pure era a un passo dal vararlo). «In Francia con il 27 per cento dei voti si prende tutto il potere, ma il giorno dopo sono tutti sull'attenti. In Italia dopo il voto chi ha perso dice che è stato illegittimo. Suggerisco un approccio più laico», argomenta D'Alema. «Le riforme non possono dare ciò che non sa dare la politica», puntella Amato già dotto «professionista a contratto» proprio in materia costituzionale. «Una politica che non sa interpretare la società non diventa migliore se messa in una forma istituzionale più robusta, è solo una protesi della cattiva politica. Non prendiamo a modello il sesso dei vecchi, cerchiamo di fare un'Italia per giovani».
Ad Amato non si può dare torto, e forse neppure a D'Alema quando ricorda che «tutti noi siamo andati a chiedere in ginocchio a Napolitano di restare, perché il Paese aveva assoluto bisogno di un arbitro super partes... A chi attribuirlo, se esso diventa il capo di una parte? Alla Consulta? Bisogna dare una risposta seria, altrimenti si fanno solo battute». Pur con toni garbati, D'Alema non rinuncia alla strigliata, perché «non è il presidenzialismo la prova dell'affermarsi del riformismo. Non abbiamo mai scelto seriamente un modello, è arrivato il momento di farlo: se questo governo ha un senso è quello di sciogliere il nodo con serietà e non con la semplificazione propagandistica. La Francia è altra storia, una monarchia costituzionale».
Che resta, allora, della «congiura» che il 16 luglio del '76 portò il giovane ex assessore al Bilancio di Milano, che si era meritato fin anche «l'interesse degli americani», sulla massima poltrona del Psi? La certezza che i socialisti dell'epoca, «in un'atmosfera di estrema tensione, inondata di risentimenti e preoccupazioni» (così Nenni), cercavano di interpretare una nuova realtà, un nuovo Paese emergente, soprattutto al Nord. «E non ci riuscimmo, a interpretarlo - ammette Amato - Fallimmo il nostro compito, non facemmo nostra la cultura della concorrenza e della modernità. Tanto che, quel Nord, finirà alla Lega». Il partito fu scosso dal «tedesco del Psi», come all'epoca ebbe a definirlo senza pregiudizio La Repubblica.
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