Così il Pd cade a pezzi Epifani invoca il rimpasto

Democrat spaccati tra dissidenti e lealisti, il segretario vuole un "tagliando dopo l'estate". Il premier mercoledì sera vedrà i deputati per un chiarimento

Così il Pd cade a pezzi Epifani invoca il rimpasto

Standingovation dal Pdl, lodi da Berlusconi, fraterne strette di mano con Alfano. Per non parlare del beffardo titolo di Repubblica: «Il Pd salva Alfano». Ha un sapore amaro, per i democrat blindati da Napolitano, la vittoria di Enrico Letta ieri.

Vittoria numericamente smagliante: la mozione di sfiducia contro il ministro degli Interni ha ottenuto solo 55 sì (da Sel e M5S), 13 astenuti (Lega) e 226 no da Pdl e Pd che hanno votato come un sol uomo. Tanti mal di pancia a sinistra, ma solo in tre (Puppato, Tocci e Ricchiuti) si sono azzardati a mettere a verbale il proprio dissenso non partecipando al voto. Prendendosi dure reprimende dai colleghi di partito: «Non puoi stare in un partito per sputargli addosso, non possiamo andare avanti con gli abbonati alle posizioni in dissenso - attacca Stefano Esposito - Vuoi il voto di Grillo? E allora vattene con Grillo». Qualcuno, meno eroico, si è fatto mettere in «missione» (chissà dove) dal gruppo per non dover votare: Corradino Mineo, Stefania Pezzopane. «Dei Ponzio Pilato», li liquida un lettiano. Un altro dissidente, il senatore Casson, si è confuso: intervento durissimo contro il Viminale, monito ciceroniano ai suoi: «Solo il vincolo di partito mi impone di votare la sfiducia, ma quousque tandem abutere?», poi al momento del voto dice sì alla mozione delle opposizioni e gli tocca scusarsi: «È stato un errore, volevo votare no». A testimonianza della profonda schizofrenia con cui la sinistra vive la situazione.

Quanto al capogruppo Zanda, gli è toccato barcamenarsi faticosamente: toni severissimi sul pasticcio kazako e sulle «responsabilità politiche» del ministro, salvo poi ribadire la propria fiducia. Con un appello ad Alfano: valuti lei se può rinunciare almeno a uno dei suoi tre incarichi (ministro, vicepremier e segretario). Letta ha ventilato a Epifani, per aiutarlo a tener buoni i suoi, vaghe possibilità di futuri rimpasti, ma nella convinzione che di qui all'autunno chi vivrà vedrà. Epifani però lo incalza: «Se il governo arriva a settembre, andrà fatto un tagliando alla sua autorevolezza».

Il premier, come aveva annunciato, ha messo sul piatto se stesso e tutto il governo, e si è fatto forte dell'usbergo che Napolitano ha infilato addosso all'esecutivo per convincere un Pd dilaniato a compattarsi. Ma ha anche tirato fuori le unghie, avvertendo (soprattutto i suoi, e il convitato di pietra Matteo Renzi) di non «scambiare la mia buona educazione per debolezza» e annunciando la propria «determinazione» a «non deludere» gli italiani. Come dire: resterò qui finché non riterrò di aver portato a casa i risultati che volevo, e non tollererò altri strappi sul governo. Cosa che spiegherà chiaro ai parlamentari Pd, convocati mercoledì per un «chiarimento», presente anche il segretario.

Resta però il malumore della base che si riversa sui parlamentari, sempre più in difficoltà. E restano i sondaggi che, per il governo e per il partito, continuano a calare. Alimentando la rabbia impotente degli ex Ds, che dentro il Pd si sentono sempre più mancare il terreno sotto i piedi: «Ormai siamo fuori da tutto, comandano solo gli ex Dc: Letta al governo, Franceschini che fa il bello e cattivo tempo sulle nomine e nel partito, e Renzi che si prepara a prendersi il Pd e Palazzo Chigi giurando di non fare prigionieri», si sfoga uno di loro. L'unica speranza degli ex Ds sta nel mettere l'uno contro l'altro Letta e Renzi, ma l'esito per ora è incerto.

E uno che parla sempre chiaro, come Ugo Sposetti, attacca duramente entrambi: abolendo il finanziamento pubblico «Letta fa un atto di violenza contro la democrazia», tuona l'ex tesoriere. Quanto a Renzi, «ora che è amato da Repubblica sarà la sua fine».

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