di Rodolfo Parietti
In psichiatria si chiama sindrome bipolare. In Borsa, più semplicemente, volatilità. In entrambi i casi i sintomi sono identici: a una stato euforico segue una picchiata nel buio della depressione. Senza scomodare Freud o Jung, possiamo affermare che quello del mercato azionario non è un male oscuro: tutti sanno che c'è, ma curarlo è un'altra storia. Anche se all'origine c'è la crisi del debito sovrano, straordinario moltiplicare di incertezza. La febbre degli spread e la rincorsa a risistemare le finanze pubbliche hanno finito per sgretolare una regola aurea: se un'azienda ha i conti in ordine, è in crescita e ha buone possibilità di continuare a farlo, allora il prezzo del titolo rifletterà questo percorso virtuoso. Oggi, invece, i cosiddetti fondamentali hanno spesso un peso marginale. Basta un'alzata di sopracciglio della Merkel, uno sbadiglio della Bundesbank, uno spiffero finanziario maligno accompagnato dall'ennesima intemerata della solita agenzia di rating per mettere a soqquadro i mercati. Adesso si dice che Wall Street sta scommettendo sulla disgregazione dell'euro.
Lo proverebbe la corsa della banche d'affari Usa a diminuire l'esposizione verso Eurolandia e a coprirsi contestualmente le spalle con i Cds, l'assicurazione contro i default sovrani. Altra benzina per alimentare la volatilità. Le ultime due sedute della scorsa settimana sono state l'apoteosi della schizofrenia borsistica. Una caduta verticale giovedì, costata quasi 90 miliardi di euro all'Europa, a causa dell'assenza di misure immediate anti-crisi da parte della Bce. Poi, neppure 24 ore dopo, una folle corsa agli acquisti motivata con una più approfondita riflessione sul senso delle parole di Mario Draghi. Sarà anche vero, ma una Borsa così è una Borsa malata. Capace solo di falciare i piccoli risparmiatori, i primi a cadere sotto l'onda del panico. Non tutti sopportano, in una manciata di ore, ribassi a due cifre che risucchiano magari i risparmi di una vita. Molti preferiscono limitare i danni. Vendono in perdita e voltano le spalle a Piazza Affari. Forse per sempre. «Banca e famiglia danno rendite sicure», cantava De André. Non è più così. Perché di sicuro, in finanza, non c'è più nulla. Un esempio? Soffrono perfino le Generali, un tempo considerate un forziere a difesa dell'investimento. La capitalizzazione, cioè il valore di Borsa del Leone di Trieste, è crollato dai 40 miliardi di euro del periodo pre-crisi subprime a neppure 16 miliardi. Un po' poco per una compagnia con 460 miliardi di asset investiti (bilancio 2011). Ma questa Borsa mastica tutto con la stessa sistematica disinvoltura, peraltro agevolata dai tardivi provvedimenti contro la speculazione. Come quello con cui la Consob ha solo di recente riproposto e poi prorogato (fino a settembre) il divieto di vendere allo scoperto titoli bancari e assicurativi (il divertissement preferito di chi gioca al ribasso) dopo averlo rimosso la scorsa primavera. Più che di controlli e paletti da parte degli organi di vigilanza, il nodo è però politico. E chiama in causa l'inerzia, l'incapacità di comunicare in modo chiaro e l'alto tasso di litigiosità con cui i leader dell'Eurozona hanno gestito la crisi.
E ora, per evitare la catastrofe, dobbiamo solo sperare che Draghi mantenga davvero ciò che ha finora solo promesso.
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