«Cosa ho fatto quando ho saputo d'essere tornato un uomo libero? Ho baciato mia moglie».
Ha la voce e l'entusiasmo di un ragazzino, Francesco Gangemi (nella foto). E come un ragazzino s'è stretto alla sua Marisa, al figlio Maurizio e all'avvocato Giuseppe Lupis («un fratello per me», confessa), che lo ha tirato fuori dall'inferno. Ride, quasi balla sui suoi 79 anni, che non sono affatto un peso nel giorno in cui il giornalista calabrese festeggia il ritorno alla vita. Lo avevano arrestato il 7 ottobre, incuranti della sua età e del cancro che lo tormenta insieme al cuore che batte pazzo, perché sul suo capo pendevano diverse sentenze per diffamazione tutte passate in giudicato e perciò da scontare in cella, secondo la Procura generale di Catania, che aveva giustificato l'adozione del provvedimento restrittivo con la mancata presentazione di un'istanza per la concessione di misure alternative.
Ma non era così: una richiesta in tal senso era stata già depositata, e pure da tempo, davanti ai giudici di Catanzaro. Gli stessi competenti ad occuparsi di una delle pronunce ritenute irrevocabili ma che invece non lo era perché in realtà materia di un processo di appello ancora in corso, come è riuscito a dimostrare coi suoi legali il direttore del mensile reggino Il dibattito.
Insomma, sei giorni in cella e più d'un mese ai domiciliari. Per evitarli, sarebbe bastato un certificato, mai acquisito d'ufficio e preso in considerazione solo quando presentato dai difensori del detenuto. E così, alla fine, innestando la retromarcia, ieri la Procura generale catanese ha disposto «la sospensione provvisoria dell'esecuzione della pena».
Niente scuse, né parole di contrizione: il burocratese non lo ammette, il dogma dell'infallibilità non lo consente. «Cosa vuole che le dica», commenta Gangemi con l'aria di chi ne ha viste tante e passate ancor di più. «In vita mia mi hanno arrestato tre volte, e ogni volta assolto. Ma non gli è bastato: mi hanno perquisito, pedinato, intercettato per anni. E sa perché? Perché nei miei articoli scrivevo che alcuni magistrati non sono capaci di svolgere il loro ruolo». Inevitabile, allora, che il discorso si sposti sulla «necessità di una legge che eviti il carcere per i reati d'opinione» e, come aggiunge l'avvocato Lupis, «sul bisogno di una riforma della giustizia: il potere delle Procure a volte prevarica financo quello dei Tribunali».
Il caso Gangemi è chiuso, ma non finisce qui: «Chiederemo di appurare come sia possibile che si verifichino situazioni del genere», anticipa Lupis, augurandosi che «qualcuno a Roma si decida ad intervenire». Il direttore del Dibattito concorda: «Ne ho scritto, ne scriverò.
Continuerò a fare quello che facevo prima di questa assurda storia». Cioè? «Il giornalista. Per dire le cose che nessuno dice». E se necessario, per questo tornare anche in galera, in nome della libertà. La propria, e ancor più quella degli altri.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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