Il delfino passato dal jet set alle bombe

A guardarlo, lassù in cima alla murata della sua caserma-fortezza, sembrava che già ballasse sull'orlo dell'abisso, gli occhi fissi in quelli di compare Saddam Hussein che dall'oltretomba, su uno sfondo di fiamme, sangue e macerie, il viso bluastro dell'impiccato, lo chiama a sé, come in una specie di Shining islamico.
Invece Muammar Gheddafi sta «molto bene» ed è «di buonumore». Lo dice suo figlio Seif el-Islam (nome bislacco, alle nostre orecchie. Significa «Spada dell'Islam») E se lo dice suo figlio Seif, che del padre è ambasciatore e megafono, almeno da quando indossa i calzoni lunghi, i casi son due: o si è bevuto il cervello, e cerca di rintuzzare a furia di spacconate la gragnuola di brutte notizie a senso unico che si è andata ispessendo sul capo del vecchio raìs (le migliaia di morti, i mercenari, i bombardamenti sui civili); o ha una versione della verità (e dunque anche delle pezze d'appoggio che ci si immagina mostrerà) totalmente diversa da quella che i media - soprattutto quelli arabi, fatto curioso - stanno raccontando sulla guerra civile che infuria a poche centinaia di metri dal cuore della capitale.
«Spada dell'Islam», ovvero Seif, in genere non parla a vanvera. Trentasette anni, ingegnere, figlio di secondo letto di Gheddafi, titolare di un fastoso studio di architettura a Tripoli e ascoltato «consigliori» del padre, si è laureato in Libia ma ha studiato anche alla London School of Economics. Agi e comodità non gli sono mai mancati, così come le frequentazioni altolocate e le vacanze a Montecarlo e a Saint Tropez da golden boy. Mitiche, nel ricordo dei partecipanti, sono rimaste le immagini del party che «Spada dell'Islam» diede in Montenegro nel 2009, con gli amici Oleg Deripaska (un russo ricco sfondato) e il principe Alberto di Monaco. Ma non è detto che siano state le ultime, nella sua visione delle cose e del mondo. «Il morale è molto alto», ha detto all'emittente britannica Channel 4, dichiarandosi «ottimista» e negando che ci sia in atto una guerra civile (salvo poi, cinque minuti dopo ammettere che certo, a ben pensarci, forse una guerra civile in effetti c'è). «La situazione però è sotto controllo in tre quarti del Paese», ha aggiunto subito dopo, anche se non si può negare, ha ammesso, che in giro si respira «una certa volontà di cambiamento». Nelle sue disperate dichiarazioni alla stampa («i bombardamenti, i mercenari, le migliaia di vittime sono una grande barzelletta»; «gli americani hanno i satelliti, perché non raccontano la verità?»; «c'è una grande congiura in atto. Al Qaida guida la danza») Seif dà la sensazione di un ragazzo stretto nell'angolo, ma ancora convinto che la situazione, apparentemente senza via d'uscita, si possa invece ribaltare in extremis.
Ma perché, gli è stato domandato, le tv arabe come Al Jazeera e Al Arabiya avrebbero dovuto prestarsi all'oscura macchinazione antilibica di cui parla il colonnello Gheddafi? Che interesse avrebbero avuto a mettere in cattiva luce il colonnello, raccontando verità distorte?
E lui: «I media sono lo strumento di una grande cospirazione di Paesi arabi contro di noi, vi dirò presto chi. Non hanno capito che stanno favorendo la creazione di un Afghanistan in riva al Mediterraneo». Lontana sembra per Seif la stagione in cui esponeva le sue tele a Castel Sant'Angelo, o quella in cui, passando per Roma, era ricevuto da Gianni Letta, da Lamberto Dini e Massimo D'Alema. Lontane le giornate di amabili conversari con il banchiere Cesare Geronzi e Marco Tronchetti Provera, e le sciate a Cortina con l'amministratore delegato dell'Eni Paolo Scaroni.

Ieri sera, a Tripoli, Spada dell'Islam sembrava quel che è: un giovanotto in bilico tra la speranza di salvare il salvabile e la disperazione. Un giovanotto al quale la vita ha assegnato un ruolo anche più grande del nome roboante che gli hanno appioppato, ma deciso come suo padre ad affrontare il destino a viso aperto.

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