Roma - In mezzo c'è il fortino dei fedelissimi di Pier Luigi Bersani. Asserragliati, elmetto calzato e una missione impossibile: assicurare un mandato e una maggioranza al segretario del Partito democratico. Intorno al bunker, una babele di correnti e personaggi vecchi e nuovi che si barcamenano su soluzioni per il partito e scappatoie personali. Un universo politico liquido che assomiglia sempre meno al Pd pre voto ed è destinato a cambiare ulteriormente.
Difficile, ad esempio, capire cosa ne sarà tra qualche mese dei bersaniani Doc. Sono stati i registi della campagna elettorale che ha sancito, contro ogni pronostico, la vittoria di Beppe Grillo e di Silvio Berlusconi. Il consigliere Miguel Gotor, Chiara Geloni, animatrice della web tv Youdem. Poi il coordinatore della campagna Stefano Di Traglia, che con Vasco Errani e Maurizio Migliavacca formavano il cosiddetto «tortellino magico», il cerchio simil bossiano dei consiglieri più vicini al segretario. Criticato, dagli altri sostenitori di Bersani, proprio come avveniva nel Carroccio.
Ad esempio dai giovani turchi, che per il momento resistono nella trincea, anche se con evidenti segni di insofferenza. Stefano Fassina, responsabile economico del partito, ormai gioca in proprio come riferimento della sinistra filo Cgil, posizione che non è vincente, ma garantisce una rendita. Poi Matteo Orfini, Andrea Orlando e Alessandra Moretti, portavoce di Bersani alle primarie. E Tommaso Giuntella.
Sono accomunati ai fedelissimi del segretario dall'analisi della sconfitta di scuola vecchio Pci (sono gli altri che non hanno capito) e anche dal fatto che vedono come unica prospettiva possibile, quella di una maggioranza con Beppe Grillo che però non vuole. Loro, vogliono che entri nella maggioranza con le buone o con le cattive, cioè con Bersani che si presenta alle Camere e chiede, senza un'intesa preventiva, la fiducia. Ma non escludono un passo indietro del leader, se gli eventi dovessero precipitare.
Tutti gli altri vorrebbero, di fatto, che il segretario Pd facesse un passo indietro. Soprattutto dopo l'appello di Giorgio Napolitano alla «misura e al realismo». Il presidente della Repubblica è il punto di riferimento di un'area, per il momento virtuale, che accomuna renziani, veltroniani e cani sciolti del partito. Giorgio Tonini, Stefano Ceccanti, Paolo Gentiloni e lo stesso Walter Veltroni vorrebbero che il partito si affidasse al capo dello Stato senza fare pressioni sull'incarico. Perché il Pd non è autosufficiente al Senato. E un governo di minoranza non è quello che serve ad un paese nel mirino dei mercati.
Non traggono le conseguenze, dicendo che l'unica alternativa è una maggioranza con il Pdl, ma è difficile immaginare un esito diverso se la soluzione non può essere quella di un governo di minoranza che rincorre i parlamentari Cinque Stelle. Su questa linea c'è anche Massimo D'Alema. Che, come sempre, gioca in proprio.
Unico a evocare apertamente una specie di governissimo è il renziano Graziano Delrio, sindaco di Reggio Emilia, sicuro che «piuttosto che stare a guardare Grillo e Casaleggio meglio che continui Monti». I renziani sono gli unici nel partito a muoversi in una prospettiva di medio-lungo termine. Le chiavi del Pd andranno, prima o poi, al sindaco di Firenze. Ma la sfida per i vari Roberto Giachetti, Gentiloni ed Ermete Realacci è arrivare integri alla meta. Cercando di restare il più possibile distinti e distanti dalla leadership della sconfitta. Senza contare che lo stesso Renzi potrebbe cercare nuovi personaggi da lanciare nel partito, per sostenere questa nuova difficile fase.
Infine c'è la categoria residuale degli scomparsi. Rosy Bindi, dopo avere combattuto con i denti per la candidatura, si è eclissata. Così come i candidati-star Massimo Mucchetti e Piero Grasso. Tutti in attesa di tempi migliori.
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