Nessuno può dubitare che il procedimento che arriva oggi davanti alla Giunta per le elezioni del Senato abbia una portata rilevantissima per la storia politica italiana. Esso rappresenta per molti versi il momento della verità sul modo in cui tutti noi, politici, magistrati, opinionisti e comuni cittadini guardiamo allo Stato di diritto e all'ordine costituzionale che i nostri padri si sono dati e che quotidianamente osserviamo e rinnoviamo con la nostra azione.
Spetta a tutti i protagonisti operare perché la dimensione giuridica della vicenda non sia travolta dalle passioni e dai desideri di utilizzare politicamente un'occasione in cui solo le ragioni del diritto dovrebbero operare. Proprio in ossequio a questa premessa, vorrei cercare di mettere in fila i principali argomenti che si sono confrontati in queste settimane a proposito della decadenza di Berlusconi, e riassumere ai lettori gli argomenti di diritto che riteniamo possano essere avanzati a favore della inapplicabilità della cosiddetta legge Severino alla vicenda del leader di uno dei più importanti movimento politici italiani. Procederò schematicamente per punti.
Il primo argomento recita «le sentenze si applicano, non è ammissibile un quarto grado di giudizio». Questa tesi è la classica affermazione ad effetto con finalità retoriche. E, infatti, essa non può che venire condivisa da chiunque. Peccato che non c'entra nulla con il nostro problema. La giunta del Senato, infatti, non può e non deve riesaminare i fatti affrontati nel processo conclusosi (in parte) con la sentenza del 1° agosto.
La giunta si deve occupare di applicare non una sentenza, ma una legge che attribuisce a quella sentenza conseguenze ulteriori rispetto a quanto previsto nella sentenza stessa, la quale di incandidabilità non si occupa minimamente. Non un quarto grado di giudizio dunque, ma la verifica - che solo alla giunta e al Senato spetta (e quindi semmai un primo grado) - se la legge sia applicabile al caso Berlusconi.
Secondo argomento: «La legge è uguale per tutti». Altra affermazione ad effetto retorico. Verrebbe da rispondere: «Appunto!».
Perché se è vero che la legge è uguale per tutti, è altrettanto vero che chiunque si trovi a subire l'applicazione di una legge che ritiene incostituzionale e illegittima (come in questo caso) ha il diritto (uguale per tutti) di contestarne la legittimità davanti agli organi, in primis la Corte costituzionale.
Terzo argomento: «Quella legge l'hanno voluta tutti, tant'è vero che hanno persino rinunziato a candidare coloro che erano stati condannati, come fanno a rimangiarsela adesso?».
Questo argomento è molto suggestivo, ma non convince per tanti motivi. Innanzitutto ciò che si è convintamente approvato è una legge, non una delle sue possibili interpretazioni (quella che la vorrebbe retroattiva). Peraltro nella legge delega approvata dal Parlamento non c'era traccia di retroattività. È stato il governo che ha inserito una norma che, facendo salve le ipotesi di patteggiamento, indirettamente affermava una forma di retroattività. È vero il Parlamento ha dato un parere sullo schema del decreto, ma non essendo la retroattività prevista solo indirettamente e non in modo esplicito può essere forse il segno di troppa fretta e troppa leggerezza, ma non certo quello di una esplicita e concorde volontà in tal senso.
Ultimo argomento: «Ma la causa di incandidabilità non è una sanzione, né penale, né amministrativa, né di altro tipo. È solo un requisito negativo per godere dell'elettorato passivo». Detto altrimenti, l'essere stati condannati è come l'aver perso la cittadinanza, se non sei cittadino non puoi essere eletto, se hai una condanna non puoi essere eletto.
Quello che conta, insomma, è il tuo status oggi, non le ragioni (passate) che lo hanno fatto venire meno.
Questo è l'argomento più delicato. Perché è su questo argomento che il Consiglio di Stato ha applicato la «Severino» al caso Miniscalco, che peraltro non riguardava un parlamentare, il cui diritto elettorale è garantito in Costituzione assai più ampiamente che per qualsiasi altro caso di elezione.
Contro questo argomento si possono formulare due obiezioni. La prima è quella espressa, tra gli altri, da due insigni giuristi, Marcello Gallo (che è anche accademico dei Lincei) e Gaetano Insolera, sul Corriere della Sera del 3 settembre scorso. Essi affermano infatti che il fatto che l'incandidabilità riguardi uno status non esclude che sia effetto di una sanzione, perché anzi «ogni sanzione si traduce nella riduzione della capacità di diritto e della capacità di agire».
In secondo luogo, la giurisprudenza più cospicua, ben oltre il singolo caso «Miniscalco», riguarda per esempio i requisiti per il rinnovo e la conservazione del permesso di soggiorno degli stranieri extracomunitari.
La legge prevede, infatti, ipotesi in cui chi sia stato condannato non possa ottenere o perda il permesso di soggiorno («decada» cioè dal possesso di tale titolo). Ebbene, il Consiglio di Stato ha costantemente affermato che tale «decadenza» non possa applicarsi a reati commessi prima dell'entrata in vigore della legge che la prevede. E questo perché «in caso di reati commessi prima dell'entrata in vigore di detta disposizione, l'autore del reato non era in grado di conoscere le gravi conseguenze derivanti dalla propria condotta».
Mi domando allora, perché un tale principio di minima civiltà giuridica deve - giustamente - applicarsi ai cittadini extracomunitari che chiedono il permesso di soggiorno e non debbono applicarsi ad un parlamentare della Repubblica.
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