Il dirottatore dei due mondi che voleva decimare i medici

Resta il protagonista del più lungo dirottamento nella storia dell'aviazione civile. Cinque voli con due diversi equipaggi: da Los Angeles a Denver, da Denver a New York, da New York a Bangor, nel Maine; poi la traversata dell'Atlantico fino a Shannon, in Irlanda; infine l'atterraggio a Roma. A casa. Totale: 10.941 chilometri. Resta anche il più anomalo dei pirati dell'aria, visto che in volo ebbe «una mezza storia» con la hostess Tracey Coleman: «Veniva da Kansas City, bella dentro e bella fuori, coraggio straordinario. Al processo testimoniò a mio favore. Oggi avrebbe 65 anni. La sto ancora cercando. Attraverso Facebook sono in contatto con la sua collega, Charlene Delmonico, che vive nel Missouri». Si arrese alla Madonna, anzi a tutti i santi, il 1° novembre 1969, giorno del suo 20° compleanno, alle porte di Roma, dopo essere finito in una strada senza uscita con l'auto che aveva preteso per la fuga dalle autorità: «Scappai a piedi in mezzo ai campi. Alla fine feci autostop. Mi raccolse una famigliola che si recava al santuario mariano del Divino Amore per la festa di Ognissanti. Pensai: vado a messa con loro. Non dormivo da tre giorni, mi si chiudevano le palpebre. Purtroppo il celebrante mi riconobbe e chiamò la polizia». Agli agenti che gli stringevano gli schiavettoni attorno ai polsi disse solo: «N'aggio fatto niente, paisà», e loro a momenti tiravano a sorte per decidere a quale delle volanti, accorse in nugolo, toccasse il privilegio di tradurre in questura l'uomo più braccato del pianeta. Finché non arrivò l'ordine perentorio di Pietro Galì, vicequestore in servizio a Fiumicino, che fino a poco prima, con la canna di un fucile premuta sulla nuca, aveva guidato la Giulietta messa a disposizione del fuggitivo: «Toglietegli subito le manette!».
Ben fatto. Davvero non meritava l'onta dei ferri, Raffaele Minichiello, classe 1949, figlio di un contadino divenuto emigrante e minatore per fame, sradicato dalla sua Melito Irpino (Avellino) all'età di 14 anni e sbattuto in una high school di Seattle, dall'altra parte del mondo, sulla costa del Pacifico, senza sapere una sola parola di inglese, arruolatosi volontario nei marine a 17, partito per il Vietnam a 18, trasformatosi in criminale internazionale a 19. Gli basterebbero, come credenziali, le cinque medaglie al valore conquistate prima, durante e dopo l'Offensiva del Têt, che in meno di due mesi costò 76.000 morti. Invece oggi ha voluto schierare l'intero personale del ristorante-bar di Milano 3 dove lavora come jolly fra sala e cucina: «Per le referenze, chieda pure a loro». Non serve. Basta guardarlo in faccia e poi vedere con quale affetto se lo stringono al petto il proprietario e le cameriere. Ma lui sente che non deve farsi perdonare soltanto quel dirottamento, peraltro finito senza spargimento di sangue e pagato con 18 mesi di carcere (il resto della pena, 3 anni e mezzo in appello, gli fu condonato per buona condotta). Nel foro della propria coscienza si giudica anche colpevole di un folle progetto di morte, per fortuna mai portato a compimento: una strage di medici per vendicare la moglie Cinzia Ciocci, abbandonata per più di cinque ore in sala travaglio e morta di parto il 5 febbraio 1985 insieme col nascituro, Mario, che sarebbe stato il suo secondogenito. «Fu Dio a fermare la mia mano».
Minichiello non rievoca volentieri la propria odissea. Rifiutò l'invito di Bruno Vespa che lo voleva a Porta a porta. Ora l'agente letterario Piergiorgio Nicolazzini l'ha convinto a metterla nero su bianco e ha presentato il manoscritto alla London book fair. Se l'ex marine asseconderà il grande interesse dimostrato dagli editori anglosassoni, è solo perché ha già deciso a chi devolvere il ricavato del libro che potrebbe nascerne: alla Gideons international per la diffusione della Bibbia, a chi assiste i malati terminali di cancro, all'associazione Operation Smile che opera gratis i bimbi poveri con malformazioni facciali. Tolta la percentuale spettante all'agenzia, a lui resteranno gli autografi.
Se avesse combattuto in Irak o in Afghanistan, l'avrebbero messo in trattamento per Ptsd, post-traumatic stress disorder. Il 28 ottobre 1969, trascorsi 11 mesi esatti dall'inizio dell'ultimo combattimento in Vietnam, gli strizzacervelli lasciarono che si curasse a modo suo, prendendo i comandi di un Boeing 707 della Twa diretto da Los Angeles a San Francisco con 39 passeggeri, fatti scendere al primo scalo. Nel volo attraverso due continenti, sotto il tiro della sua carabina Winchester M1 rimasero solo i cinque membri dell'equipaggio. Con sé aveva 250 proiettili.
Come riuscì a superare i controlli con un simile arsenale?
«Mica era come oggi. Mi bastò fare amicizia con le hostess prima dell'imbarco. Salimmo a bordo insieme. Gli addetti alla sicurezza s'accontentarono della polizza assicurativa e di una copia di Life che tenevo in mano. La borsa da viaggio passò inosservata. Una volta a bordo, mostrai un proiettile all'assistente di volo: fu sufficiente».
Per la verità, quando le teste di cuoio tentarono un blitz all'aeroporto di New York, lei sparò.
«Un solo colpo, partito per errore. Rimbalzò su una bombola d'ossigeno: se fosse esplosa, saremmo arrostiti tutti. Ma il ricorso alla violenza l'avevo escluso in partenza. Durante il volo sull'Atlantico il comandante venne a sedersi con me in prima classe, lasciando ai comandi il secondo pilota. Parlammo delle nostre famiglie. Quando fui costretto a recarmi alla toilette, deposi il Winchester ai suoi piedi. Pensavo che mi ammazzasse».
Invece non le sparò.
«Avevo deciso di tornare in Italia per morire, ero sicuro che non ne sarei uscito vivo. Ragionavo: scendo a Roma, mi faccio riportare nella mia Campania, vedo Napoli e puoi muoio».
Perché dirottò l'aereo?
«Per una questione di principio. In Vietnam avevo messo da parte 800 dollari, i risparmi sulla paga, affidandoli alla cassa dei marine. Tornato in patria, ne trovai in banca solo 600. Chiesi spiegazioni. Nessuno me le diede. Peggio: mi ritrovai sotto processo davanti alla corte marziale. Ero il malavitoso italiano a prescindere. Grease, il grasso. Wop, il maiale, il guappo napoletano. Ma come? Manco sapevo che esistesse la camorra, mai visto un film di mafia, conoscevo appena il mio nome e cognome. Le pare il benvenuto che si dà a un mezzo eroe di ritorno dal Vietnam? Sputi e maltrattamenti? Non era stata la mia guerra. Avevo combattuto per gli Stati Uniti, per la libertà».
È questo che pensava?
«Certo, e lo penso ancora. Mi sento al 100 per cento americano e al 100 per cento italiano. Ci eravamo impegnati a sostenere il Vietnam del Sud. Siamo andati ad affrontare un esercito più folto e meglio armato del nostro. I kalashnikov dei nordvietnamiti e dei vietcong sparavano 30 colpi, i nostri M16 appena 20: tiravi il grilletto ed era già finito il caricatore. Loro conoscevano il territorio, io non sapevo neppure dove mi trovassi. Loro avevano anni di addestramento e di carriera militare alle spalle, io ero un vicecaporale di 18 anni che guadagnava 300 dollari al mese e in caso di decesso ne valeva 10.000 di risarcimento. Su 2.709.000 soldati americani in Vietnam, 2 milioni erano giovani volontari come me e 58.148 sono morti. Quella guerra non l'abbiamo persa».
Ha ucciso molte persone laggiù?
«Spero di no. Non lo so. Mah, chi lo sa? Può darsi...». (La voce s'affievolisce). «Penso di sì. Ma non... Guardi, non è una roba... Cioè, noi... Tanta gente moriva. La guerra è qualcosa di diverso da quello che la gente immagina. In guerra si fa... Io ho riflettuto. Un mese e mezzo abbandonati nella giungla, come animali, senza potersi lavare, senza dormire, attaccati da tutte le parti, ad aspettare l'acqua per la borraccia portata dagli elicotteri. Cadi in un'imboscata, vedi uno col fucile puntato, decidi, spari: quella persona è morta. Cresci un figlio, lo porti a 18-20 anni, arriva in un posto... Tu togli la vita a quella persona, un attimo... È difficile da capire. Magari hai visto un tuo compagno saltare su una mina, era fidanzato, si doveva sposare, allora vorresti ammazzarne tanti. Io non so, signor Stefano, come si possa spiegare».
La scena più orribile vista in Vietnam?
«Sulla Strada numero 9 che collega il Laos al porto vietnamita di Da Nang. Tornò una jeep: era vivo solo il guidatore. Gli altri cinque commilitoni morti, spaccati, spappolati, senza cranio. Vomitai per una settimana. E poi su un elicottero CH46, che mi portava nelle retrovie a curarmi l'intestino pieno di vermi. Una camera mortuaria volante. Il vento entrava dai portelloni aperti, sollevando i ponchos di plastica nera che avvolgevano i cadaveri dei caduti. Finché una folata non scoprì il volto del mio miglior amico di corso a Camp Pendleton».
Che cosa pensa oggi della guerra?
«Una cosa assurda, sbagliata, che purtroppo ci sarà sempre. Porta solo sofferenza e distruzione. Cambia il carattere gli uomini, trasformandoli in belve feroci».
È più tornato negli Stati Uniti?
«Quattro volte. A Regina Coeli venne l'addetto militare della Marina americana a offrirmi assistenza. Che grande Paese! Ero ancora un soldato, rientrava nei miei diritti, nonostante fossi un potenziale candidato alla sedia elettrica. Non fu mai richiesta la mia estradizione. Del resto l'Italia l'avrebbe rifiutata, com'è prassi per gli Stati in cui vige la pena di morte. Invocai la grazia dal presidente Bill Clinton, che non ebbe nemmeno bisogno di firmarla: non ero mai stato processato negli Usa».
Più rivisto i suoi amici reduci?
«Quattro anni fa ci siamo incontrati nel Missouri. Invitarono anche il secondo pilota e la hostess Delmonico affinché potessi chiedergli scusa».
E loro l'hanno perdonata?
«Tutti i piloti e gli assistenti di volo del mondo l'hanno fatto. In viaggio da Monaco di Baviera a Roma con Alitalia, il personale di bordo mi ha riconosciuto e ha stappato in mio onore una bottiglia di spumante».
Perché la paragonano a Rambo?
«Non l'ho mai capito. Forse perché Rambo aveva un amico sventrato dall'ordigno nascosto nella cassetta di un lustrascarpe vietnamita: John Voli, un italo-americano come me, che finita la guerra avrebbe voluto comprarsi una Chevrolet rossa decapottabile, mentre io sognavo una Plymouth Road Runner dello stesso colore».
O forse perché, come Rambo, progettava una terribile vendetta.
«Uscii da Regina Coeli il 1° maggio 1971. In un bar di Roma conobbi Cinzia. Ci sposammo. Nacque il nostro primo figlio, Cristiano. Dieci anni dopo restò nuovamente incinta. Stava per partorire all'ospedale San Pietro, sulla Cassia. La lasciai in sala travaglio alle 6.45, con sua madre fuori dalla porta. Si accorsero che aveva avuto un'embolia soltanto alle 12. Ci fosse stato qualcuno accanto a lei, avrebbe potuto almeno salvare il nostro Mario. “Morte naturale”, concluse l'inchiesta. Andavo a trovarla in cimitero due volte al giorno, spesso tre. Mi rivolgevo ai medium, cercavo di rivedere mia moglie morta in tutti i modi. Decisi di comprarmi una Uzi, la pistola mitragliatrice israeliana, allora sapevo dove trovarla. Presi in esame tutti i luoghi dove si svolgevano congressi medici: Eur, hotel Ergife, Fiuggi. La scelta cadde su quest'ultima località. Ne avrei spediti all'inferno il maggior numero possibile».
Non ha senso.
«Per me non era una vendetta, bensì un atto di giustizia. Vi siete laureati, avete prestato il giuramento di Ippocrate e lasciate morire due innocenti, madre e figlio, in quel modo? Credevo di poter cambiare il corso della medicina».
Invece che accadde?
«Antonio, un mio amico benzinaio, continuava a parlarmi dei Gedeoni, un'associazione cristiana evangelica che ha come scopo la diffusione della Bibbia. M'invitò nella loro chiesa per i battesimi. Io mi rivolgevo ai sensitivi. Invece dovevo tornare alla fonte. Così feci. E in Luca, capitolo 23, trovai la risposta: “Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno”. Lui perdona i suoi crocifissori. Come potevo io non perdonare quei medici sciagurati?».
E se non si fosse convertito?
«Avrei compiuto la carneficina che avevo in mente e tutto sarebbe finito».
Che cosa insegna ai suoi nipotini?
«Che la Bibbia non è un libro storico. È la Parola di Dio. E conoscere Dio è la cosa più importante, per un uomo.

Rispetti le persone, se conosci Dio».
Oggi, quando subisce un torto, anziché dirottare un aereo o progettare una strage, che fa?
«Cerco di capire se è colpa mia».
(659. Continua)
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

Commenti
Pubblica un commento
Non sono consentiti commenti che contengano termini violenti, discriminatori o che contravvengano alle elementari regole di netiquette. Qui le norme di comportamento per esteso.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica