La stupidissima ed offensiva (per tutte le donne) «parità di genere», è morta, o almeno così speriamo. Del resto da decenni si è visto che tutte le positive actions volte a privilegiare una minoranza per promuoverla, per compensare le angherie del passato, sono fallite ovunque, a cominciare dagli Stati Uniti che hanno usato questo genere di umiliazioni per promuovere ora le donne, ora gli afroamericani, i latini, i gay e così via. Un fallimento senza appello. La «parità di genere» equivale a dire: «Carina, sai benissimo anche tu di non meritare questa posizione, questo lavoro, questo incarico perché c'è qualcun altro più qualificato. Tuttavia, in considerazione della tua anatomia, ti permettiamo scavalcare il signor X che avrebbe più titoli di te: che vada al diavolo lui, e congratulazioni a te».
Che vergogna per le donne chiuse in un recinto da cui possono uscire soltanto esercitando una palese ingiustizia in nome di un'altra ingiustizia (nella Fattoria degli animali di Orwell, tutti gli animali sono uguali, salvo i maiali che sono più uguali degli altri).
C'è però un dettaglio che provoca orticaria e nausea: l'uso massiccio e televisivo del termine «maschietto». Geograficamente e storicamente la parola nasce alla latitudine di Roma alla fine degli anni Settanta quando il femminismo irruppe come novità politica e di costume, sia pure scimmiottando il femminismo americano di Germaine Greer e quello francese dell'università di Vincennes. Fu allora che, accanto a donne magnifiche di cui s'è persa la traccia, cominciarono ad emergere delle sciacquette (termine romano ormai universale) che lanciarono questo sostantivo derisorio per marchiare gli uomini: «Maschietti». Pensavamo che questa parola fosse ormai morta e sepolta, ma ecco invece che nei dibattiti di questi giorni l'abbiamo vista e udita riaffiorare da labbra di destra e di sinistra, una idiozia bipartisan.
Chi non ha familiarità con questa parola potrebbe obiettare: «Dov'è l'offesa? Maschietto è soltanto un diminutivo». E già: proprio questo è il punto. «Maschietto» non è un diminutivo grammaticale, ma diminutivo della dignità per marchiare con disprezzo la collettività maschile, non degna di rispetto. Dare del «maschietto» a uno o a tutti gli uomini significa ridurli a una caricatura razziale: eccoli lì, i maschietti. Primitivi, tendenzialmente perversi, indegni e ridicoli. Se i maschi osassero usare, parlando delle donne in generale un analogo termine, sarebbero immediatamente sanzionati dalle armate del politicamente corretto e di sicuro la presidente Boldrini darebbe in escandescenze.
Non si tratta soltanto di una parola, ma anche del modo di usarla con un detestabile apparato di inflessioni e smorfie: ci vuole una faccia particolare, per dire maschietto. Ci vuole uno sguardo loffio, per dire maschietto. Un tono di voce piatto, per dire maschietto. Nel complesso l'uso di questo termine indica l'intenzione di ridurre persone al rango inferiore. Durante il nazismo a Berlino, e del comunismo a Mosca, si usava trascinare l'imputato (già pronto per l'esecuzione) davanti al giudice e al pubblico dopo avergli imposto pantaloni enormi senza cintura né bretelle.
Ogni volta che quelle braghe cadevano, i militanti e i miliziani sghignazzavano e si eccitavano: non c'era dubbio che un tale pagliaccio fosse colpevole. Si sta diffondendo purtroppo la tendenza, ad usare le parole come le braghe larghe senza cintura né bretelle dei periodi più bui dell'umanità.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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