Renzi saccheggia Letta ma l'esito non cambia. L'Ue ci boccia sui conti

Il premier copia i programmi del predecessore dopo averlo cacciato. Bruxelles non fa sconti: l'Italia è fuori strada su deficit, debito e crescita

Renzi saccheggia Letta ma l'esito non cambia. L'Ue ci boccia sui conti

Come non dare ragione a Enrico Letta, quando accusa il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, di plagio? Quando ci spiega che le cose che Renzi dice di voler fare erano contenute, miliardo più miliardo meno, titolo più titolo meno, negli ultimi provvedimenti del precedente governo (legge di Stabilità e successivi)? Proprio quelle misure riassunte e riprese nel documento, Impegno Italia, che Letta ha presentato il 12 febbraio a Palazzo Chigi come rilancio del patto di coalizione e che nella direzione del Pd del giorno dopo Renzi ha bocciato senza pietà, aprendo di fatto la crisi di governo.
Se le cose stanno così ne deriva una sindrome già vista di Matteo Renzi: copiare il nemico uccidendo il nemico. Cannibalizzare il nemico per impossessarsi della sua anima, dei suoi pensieri, dei suoi progetti, delle sue politiche. Lo aveva già fatto quando era sindaco di Firenze con il sottoscritto: copiava la riforma Brunetta della Pubblica amministrazione, ma parlava male, un giorno sì e l'altro pure, di chi quella riforma l'aveva ideata. Quella stessa riforma che Renzi continua a copiare ancora oggi, ponendola al centro del suo programma di governo. Da parte mia, nel mio discorso sulla fiducia in Aula alla Camera, gli ho regalato il copyright. Per il bene del Paese.
Dato l'onore a Letta e Saccomanni per i temi contenuti nell'agenda di governo fatta propria da Renzi e lo stigma di simpatico plagiatore cannibale a quest'ultimo, andiamo nel merito: è quella di Letta-Saccomanni-Renzi-Padoan la ricetta giusta per il nostro Paese? La risposta è contenuta negli ultimi documenti resi noti dalla Commissione europea sul nostro Paese mercoledì 5 marzo, da cui è emerso che le istituzioni dell'Unione sono molto preoccupate per la situazione economica dell'Italia, anche in ragione degli effetti (spillovers) negativi che questa ha sull'intera Eurozona. Il Pil italiano, infatti, scrive la Commissione, rappresenta il 16,5% del prodotto interno lordo di tutta l'area euro e la sua bassa crescita rallenta quella di tutti gli altri Paesi. Così come l'alto debito pubblico dell'Italia, continua la Commissione, inficia i «sentimenti» dei mercati finanziari e riduce la fiducia degli investitori sui titoli del debito sovrano anche degli altri paesi dell'Eurozona.
Ogni anno, prima della definizione del Def entro il mese di aprile, la Commissione europea conduce una sorta di «ricognizione» dei conti pubblici dei singoli Paesi, segnalando preventivamente ai governi le criticità e i punti di debolezza (tecnicamente detti «squilibri macroeconomici») che ci si aspetta. I principali indicatori analizzati sono crescita, deficit e debito. Ebbene, su tutti e tre questi fronti l'Italia è fuori dai parametri, tanto da dover essere sottoposta, come prevede il Six Pack, a uno «specifico monitoraggio», al pari della Croazia e della Slovenia.
Quella indirizzata all'Italia mercoledì è, in pratica, una sorta di «raccomandazione preventiva» della Commissione al nostro Paese. La procedura prevede che adesso l'Italia presenti nel Def un proprio piano di azioni correttive con scadenze definite, sulla cui implementazione vigilerà la Commissione europea. Gli Stati che non adempiono in maniera tempestiva alle azioni correttive dovranno versare una cauzione pari allo 0,2% del Pil. Ma la Commissione «concede» a questi Paesi una seconda chance. E se i risultati concordati non vengono raggiunti neanche al secondo tentativo, la cauzione diventa una multa di importo pari fino allo 0,1% del Pil.
Tutto questo mercoledì non è stato detto. Anzi il premier ha minimizzato: «I giornalisti italiani aspettino il Cdm del 12 marzo e i giornalisti di Bruxelles aspettino il Consiglio europeo del 20-21 marzo. Sappiamo cosa fare». Come se si trattasse di mera cronaca politica. Tornando ai contenuti della «raccomandazione preventiva». Quanto a deficit, debito e crescita, è emersa una grave divergenza di giudizio tra la Commissione europea e i numeri del governo Letta sulla situazione italiana. La Commissione ha rilevato, infatti, come il deficit nominale, previsto a -2,5% dal governo, sia invece al limite del -3% nelle stime della Commissione. Così come il deficit strutturale (epurato dalle variabili relative al ciclo economico) per il 2014 è pari al doppio (0,6% della Commissione contro lo 0,3% del governo) e oltre il limite (0,5%) previsto dalle regole comunitarie. Il debito pubblico mostra una dinamica ben superiore, sempre rispetto alle previsioni del governo italiano, con una differenza in più di 3 punti percentuali (132,4% contro 129,4%). Infine, la Commissione ha rilevato come il sentiero della possibile crescita economica italiana sia molto più arduo rispetto alle previsioni, con un tasso più contenuto (+0,6% nel 2014 contro l'1,1% del governo).
Dopo di che si apre il capitolo riforme: «L'Italia le ha rimandate per troppo tempo», scrive la Commissione. I burocrati di Bruxelles si limitano a ricordare che l'esecutivo non ha fatto nulla con riferimento alle sei raccomandazioni inviate al nostro Paese a giugno 2013 in concomitanza con l'uscita dalla procedura di infrazione per deficit eccessivo. Su queste bisogna agire: completamento della riforma della Pa; miglioramento dell'efficienza del sistema bancario; riforma del mercato del lavoro; riduzione della pressione fiscale; liberalizzazione delle public utilities; sostenibilità dei conti pubblici. Bastano poche righe. Ma attenzione alle osservazioni che seguono: l'elogio alla Spagna che, al contrario del nostro Paese, nonostante una situazione di deficit eccessivo, è riuscita a contenere i rischi della finanza pubblica con le riforme e la maggiore crescita economica. Verrebbe da dire che dalla fine del 2011 in poi, quando nel pieno della crisi economica la Spagna è andata alle elezioni, mentre in Italia si sono susseguiti governi tecnici e del presidente, abbiamo sbagliato tutto. La stessa Commissione europea che quei governi tecnici ha fortemente voluto e incoraggiato, inizia a rendersene conto.
E qui torniamo al cannibalismo: demonizzazione e uccisione del nemico dopo essersi impossessato delle sue idee. Lo sta facendo Renzi con Letta, lo ha fatto Monti con Berlusconi nel 2011, quando furono addossate a quest'ultimo tutte le colpe dell'andamento degli spread, e all'allora presidente del Consiglio fu impedito di varare quelle misure volte alla crescita e allo sviluppo che avrebbero avuto la forza di riportare sul giusto binario l'economia italiana nel pieno della crisi finanziaria internazionale. Tutte misure che proposte da Berlusconi non erano accettabili, ma a cui si è fatto ricorso al 70% per la stesura dei primi tre decreti Monti, con grande apprezzamento da parte di tutti. Cannibalismo tipico di governi non eletti, di cambi della guardia a Palazzo Chigi avvenuti senza passaggio elettorale.
Ha qualcosa da dire il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, sempre attento alla salute dei conti pubblici italiani e all'implementazione delle riforme strutturali, alla fiducia dei mercati, alla credibilità del nostro Paese nel giudizio delle istituzioni europee? Forse sarebbe il caso che il capo dello Stato si unisse alla nostra richiesta al governo di riferire in Parlamento sul vero stato dei conti pubblici, considerato anche che le riforme che l'esecutivo Renzi dice di voler fare (dal pagamento dei debiti delle Pa alla riduzione del cuneo fiscale, dal cosiddetto Jobs Act, al piano casa, all'intervento per l'edilizia scolastica), richiederanno pesanti interventi sui conti pubblici.

Oppure vogliamo chiudere ancora una volta gli occhi e continuare la politica del «due pesi e due misure», per cui l'Europa bisognava ascoltarla solo quando si esprimeva contro Berlusconi? Non può essere questa la chiave del vero cambiamento. Non c'è cannibalismo che tenga, caro Renzi, senza legittimazione democratica. Perché la sovranità appartiene al popolo.

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