A mani vuote. Nessun bazooka, nè armi letali, non un provvedimento per raffreddare gli spread. Solo altre parole. Francoforte, ore 14,30 di ieri: al termine del direttivo in cui la Bce ha lasciato invariati i tassi allo 0,75%, va in scena la metamorfosi di Mario Draghi da Terminator della speculazione qual era stato per tutti dopo l'intervento della scorsa settimana a Londra, a soldatino pronto a rientrare nei ranghi come chiesto dalla Bundesbank. «I dettagli delle misure straordinarie che la Bce potrebbe adottare per contrastare la crisi del debito verranno discusse nelle prossime settimane e oggi (ieri, ndr) sono state prodotte solo delle linee guida».
L'esordio di Draghi è raggelante, come una brina assassina che si propaga a ragnatela sui mercati. L'incredulità dura un attimo. Poi scattano subito le vendite, piovono le sospensioni per eccesso di ribasso e si rivede il solito mood plumbeo. La reazione di Piazza Affari è paradigmatica: il robusto +2,6% d'inizio pomeriggio si sgretola, in meno di mezz'ora, fino a trasformarsi in una picchiata del 3%. Sarà anche peggio in chiusura, quando il Ftse-Mib avrà subìto una tosatura del 4,64%. Ma il copione è lo stesso ovunque, in Europa (88 miliardi di euro bruciati) così come al di là dell'oceano dove sbanda anche Wall Street. Senza risparmiare, come ovvio, l'euro (sotto 1,22 dollari) e i differenziali di rendimento: quello tra Btp e Bund passa in un attimo da 423 punti base a 488, prima di arrampicarsi fino a quota a 510.
Nuove vertigini che cancellano il doppio miracolo (rally delle Borse e raffreddamento dei rendimenti sui bond) costruito la scorsa settimana sulla frase pronunciata dal numero uno della Bce davanti agli euroscettici della City di Londra. Quel «pronti a tutto per salvare l'euro», uno slogan contro i fuochisti dello spread subito adottato dai leader di mezza Europa, Merkel compresa. «Le mie parole sono state fraintese. Non c'era alcun riferimento a un programma di acquisto titoli», è la difesa di Draghi. Insomma: mercati, economisti e stampa sono stati vittima di un'allucinazione collettiva. Forti del consenso politico che nei giorni scorsi si era via via coagulato attorno all'ex governatore di Bankitalia, all'appuntamento clou s'aspettavano tutti la scatola di cioccolatini: hanno invece ricevuto un mazzo d'ortiche. Così a coprire Draghi è rimasto solo Mario Monti: «Nessun passo indietro rispetto a Londra, semmai passi avanti», è la sponda offerta dal premier. Sarà. Alcune fonti della Commissione Ue ne prendono invece le distanze: «Dalla Bce ci aspettavamo annunci più specifici».
Ecco, qui sta il punto. Tutte le attese della vigilia convergevano sull'ipotesi di consentire al fondo Efsf di acquistare sul mercato primario bond dei Paesi in sofferenza, mentre la Bce avrebbe agito sul mercato secondario drenando i Btp e i Bonos in circolazione. La possibilità di attivare questo meccanismo s'intravede appena nelle dichiarazioni di Draghi, il cui unico riferimento a misure non convenzionali riguarda la possibilità di nuovi maxi prestiti alle banche e un ampliamento della gamma di titoli collaterali che l'Eurotower accetta come garanzia dagli istituti di credito per fornire loro i suoi rifinanziamenti. Per il resto, buio totale. Calato anche sull'Esm, il fondo permanente che molti vorrebbero fornire di licenza bancaria per renderlo un firewall impenetrabile per la speculazione: «L'attuale versione non può accedere ai fondi della Bce», ha tagliato corto il presidente della Bce.
Ancora troppi interrogativi, quindi. La Bce continua a ballare un valzer lento e stanco mentre il ritmo della crisi è punk: brutto, sporco e cattivo. E veloce. Se mai prima della riunione del board di ieri c'è stato un incontro con il capo della tedesca Bundesbank, Jens Weidmann, di sicuro Draghi non ne è uscito vincitore. Non essendo riuscito a convincere l'intransigente Buba ad allargare la propria visione oltre gli steccati che delimitano lo statuto Bce. La stessa sottolineatura posta da Draghi su quell'«agiremo sempre entro il nostro mandato», oltre al richiamo «alla stabilità dei prezzi» mai fatto nei giorni scorsi, suonano troppo tedesco-centrici. Non è bastata l'apertura di un falco come l'austriaco Ewald Nowotny, nè gli altri alleati nel board, per piegare le ali all'aquila tedesca. Anzi: parafrasando la «Fattoria degli animali» di Orwell, tutte le banche centrali sono uguali, ma una è più importante delle altre. Con diverse parole, è stata proprio la stessa Buba a ricordarlo nei giorni scorsi.
Così, addio al modello Fed: come da sempre impone Berlino, la palla viene rilanciata nella metà campo dei governi. «La nostra azione - chiarisce Draghi - non può riempire il vuoto» rappresentato da squilibri nei conti pubblici o nella discesa della competitività su cui appunto i governi devono agire. Questo ragionare non è privo di conseguenze.
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