Il Paese sembra ostaggio di un gran guazzabuglio politico-giuridico, che assomiglia ormai sempre più a quei discorsi intricati che Don Chisciotte leggeva nei suoi strambi libri, in cui si poteva trovar scritto della ragione dell'irragionevole torto che si fa alla ragione. La «legge Severino» delega il governo a stabilire che non possano essere candidabili soggetti che abbiano riportato condanne a pene detentive superiori, nel massimo astratto, a 3 anni; ed invita anche a disciplinare le ipotesi di decadenza «di diritto», cioè automatica, da una serie di cariche tra le quali quella di parlamentare italiano, quando durante la carica sopraggiunga una sentenza definitiva di condanna per delitti non colposi (ma in questo caso, senza indicazione di un limite di pena). Il decreto delegato, dal canto suo, adempie l'incarico: «Non possono comunque ricoprire la carica di deputato o senatore» coloro che siano stati condannati a pene superiori, in concreto, a 2 anni, se la pena massima in astratto è pari o superiore a 4 anni; se una causa di «incandidabilità» sopravviene nel corso del mandato elettivo, la Camera di appartenenza delibera in base alla previsione costituzionale che affida alle Camere di «giudicare» delle cause sopravvenute di «ineleggibilità».
Combinando il contenuto di delega, decreto delegato e norme costituzionali richiamate, i conti non tornano: qual è la causa di decadenza? Non la condanna, perché il filtro della Camera di appartenenza è imposto dalla Costituzione; non l'incandidabilità sopravvenuta per condanna perché anche in tal caso, il decreto delegato stabilisce, com'è agevole riscontrare, una regola difforme dal contenuto della delega (in violazione di una regola costituzionale). Tra giuristi ci s'interroga se l'incandidabilità sia una forma di ineleggibilità, cui soltanto la Costituzione riconosce la dignità di causa di decadenza: e comunque anche in questo caso ci sarebbe il filtro della Camera di appartenenza. E se questa giudica, potrebbe non dichiarare la decadenza?
È necessario porre una questione preliminare: il complesso normativo che viene fuori da questo combinatorio roteare di leggi, atti delegati, parametri costituzionali, si applica oppure no alla situazione del Cavaliere? Se si tratta di una conseguenza penale ogni peggioramento disciplinare successivo non può essere applicato. La decadenza ha a che vedere con la materia penale? La Corte costituzionale ha risposto di no. Ma la decadenza deriva direttamente da una pronuncia di condanna e pregiudica un diritto politico fondamentale di un cittadino. In tal senso l'esser condannato è ragione, costituzionalmente riconosciuta, di limitazione del diritto di voto (e di elettorato passivo), così come lo è l'indegnità morale, e comunque sempre in una prospettiva chiaramente sanzionatoria. Insomma, il carattere indiscutibilmente sanzionatorio della decadenza e la radicalità delle sue conseguenze la rendono allora una misura intrinsecamente penale (o, che dir si voglia, effetto penale della condanna). Ad essa si applicano quindi le regole penali di garanzia, come hanno ripetuto più e più volte i giudici di Strasburgo, nonché la corte di giustizia europea.
Ebbene, tra i principi fondamentali che presiedono all'irrogazione delle sanzioni penali entra in gioco qui il divieto di applicazione retroattiva: la previsione di decadenza introdotta dalla «legge Severino», dopo il fatto commesso, non è dunque applicabile. Questo il Senato dovrebbe dichiarare, e fine della partita. Né la riaprirebbe la pena accessoria, che anch'essa non potrebbe operare di diritto a pena di rivelarsi incostituzionale (del resto, il codice penale, lo si sa, è anteriore alla Costituzione); ma questo è un altro capitolo.
Questa è la difesa di un principio irrinunciabile dello stato di diritto; ad esso nessun cittadino può illudersi di poter abdicare.
*Professor straordinario di Diritto penale
Scuola Superiore Sant'Anna
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