Il miraggio è diventato realtà: dopo un anno e mezzo di black out economico ininterrotto, Eurolandia è uscita dalla recessione. È bastata una crescita dello 0,3% nel secondo trimestre, uno sviluppo superiore alle attese (+0,2%), benché ancora così gracile da necessitare, per potersi consolidare nei prossimi mesi, del sostegno della Bce e dell'azione riformatrice dei governi. Di vera e propria ripresa non si può ancora parlare. Semmai, dopo aver toccato il fondo, trattasi di un rimbalzino fisiologico che per fortuna conferma che ancora esistono i cicli economici, nonostante una crisi mutevole e multiforme. Parlare di recovery non si può, anche perché quel +0,3% rappresenta una media ingannevole.
Non tutti i Paesi dell'Eurozona hanno infatti già scollinato il Tourmalet della recessione. Certo, c'è la Germania, che continua a recitare la parte da prima della classe (+0,7%), potendo contare più sul pilastro dell'export che sui consumi domestici; sorprende anche la Francia (+0,5%), a patto di non ricordare come il risultato sia stato generato dalla politica di deficit spending condotta dall'esecutivo di François Hollande (Parigi, tra l'altro, ha ottenuto nel maggio scorso dall'Ue un rinvio di due anni per far scendere al 3% il deficit); ancor più inaspettata la performance del Portogallo (+1,1%), che potrebbe però pagare, entro fine anno, le turbolenze politiche dei mesi più recenti.
L'Italia, come peraltro atteso, resta invece nella parte destra della classifica, con una contrazione dello 0,2% tra aprile e giugno. Il raffreddamento dello spread, sceso ieri a 236 punti base (mai così in basso dal luglio 2011), sembra comunque indicare che i mercati hanno recepito i recenti segnali di miglioramento arrivati dal nostro Paese. «La questione chiave in Italia resta quella di liberare il potenziale di crescita - ricorda il vicepresidente della Commissione Ue, Olli Rehn - . Le stime sul pil non cambiano quanto richiesto all'Italia né la raccomandazione di spostare il peso fiscale dal lavoro al capitale, alle proprietà immobiliari e ai consumi». Bruxelles non entra nel dibattito sulla revisione dell'Imu, ma ricorda che le raccomandazioni indicano che «l'Italia deve fare la riforma del catasto in modo da allineare la base imponibile delle proprietà immobiliari ai valori di mercato». Certo, appare più urgente, se davvero si intende agevolare la ripresa, agire sul versante dell'imposizione fiscale che grava sulle aziende. Un recente studio della società di consulenza Price Waterhouse Coopers ha calcolato in un 68,3% la tassazione complessiva sulle imprese, contro il 42,6% della media europea. Difficile ipotizzare una ripresa robusta senza interventi sul cuneo fiscale, la cui riduzione permetterebbe tra l'altro di liberare risorse da destinare alle assunzioni e ridurre così l'oltre 12% di tasso di disoccupazione. Al contrario, non è forse il momento più adatto per «caricare» la tassazione su consumi già depressi. Tra l'altro, nei primi cinque mesi il gettito Iva è calato di quasi il 7%, a dimostrazione di quanto l'iper-tassazione - specie se associata a un periodo di recessione - si riveli un boomerang per le casse erariali.
Italia a parte, Rehn resta prudente sull'evoluzione della congiuntura nell'Eurozona. I segnali di timida ripresa, spiega, ci sono, ma un suo consolidamento può essere ottenuto solo mantenendo ferma la barra delle riforme economiche, riducendo la «montagna del debito sia pubblico che privato» ed eliminando le «scappatoie in cui banchieri irresponsabili e politici miopi prosperano».
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