Massimo Malpica
RomaFini è come Fonzie, non riesce a dire «ho sbagliato». Ma l'ospitata a Servizio Pubblico gli va comunque di traverso. Santoro per la verità sembra rinunciare all'assist, ma poi sornione mette Fini all'angolo. L'approccio sembra tenero: «Il Giornale stamattina mi ha scritto le dieci domande che dovrei farle. Mi faccia il favore, se è così cortese, risponda per iscritto e vedetevela tra di voi. Io non ho certo intenzione di fare dieci domande». Fini sorride, pensa d'averla svangata, si spinge a dire che «persino lui» non vuole Sallusti in carcere. Ma Santoro le domande le fa Lo stesso, a modo suo, uno, due, tre, quattro, senza perdere il ritmo. Fini sbianca, barcolla, cerca di svicolare, ma Santoro non lo lascia. La questione, spiega il giornalista, non è da giustizia penale, ma morale, politica, chiama in causa la coerenza. Il presidente della Camera paga la promessa mancata, quel voler sempre negare tutto senza spiegare, con un'alzata di spalle. Fini disse: se viene dimostrato che la casa di Montecarlo è di mio cognato, mi dimetto. Dimostrato. Non si è dimesso.
Santoro gli chiede conto di quella promessa, fatta «solennemente». Fini annuisce, ma viene incalzato: i fax con i passaporti a Walfenzao, i rapporti con Corallo. E soprattutto, spara Santoro, «l'opinione pubblica si è convinta al 99,9 per cento che, al di là dei profili penali, questa casa è oggetto di un affare da parte dei suoi familiari. E lei che fa? È andato troppo avanti con quella promessa?». Gianfranco prova a svicolare: «Non c'è in ballo un solo centesimo di denaro pubblico, non c'è un solo italiano che possa dire Fini, mi hai fregato». Santoro gioca al gatto col topo: «Possono dirlo quelli del partito, di An». Per non dire della buonanima della contessa Colleoni, che il suo patrimonio e la casa nel Principato l'aveva lasciato all'«amico» Gianfranco per la «buona battagli».
Così il presidente scappa nell'unica via di fuga lasciata aperta. Scarica la famiglia, in diretta tv. «Non posso pagare né penalmente né politicamente per il comportamento di altre persone». Santoro insiste: «Qualcosa in più però me l'aspettavo... non lo so, chiedo scusa per aver fatto quella promessa, o mi ha fregato quel fetente di... una cosa così». Ma no, Fini non si scusa. «Sono abituato a chiedere scusa quando sono cosciente di essere in colpa, non ho nulla di cui pentirmi e di vergognarmi». Però al termine di questo round si capisce che il colpo è stato accusato. Santoro alla fine lo grazia. E il presidente della Camera si salva aggrappandosi alla poltrona: «È un problema personale e familiare, e come tale va trattato, non in televisione». Non resiste a ripetere che non si dimetterà per «uno scandalo che non c'è», e Santoro a quel punto gli toglie la parola a mezza frase, passando la palla a Della Valle: «Aiutami a girare pagina, dai, tanto questo è un problema che se lo spiccia Fini con l'opinione pubblica». Fini resta lì, aspettando di intervenire in campi meno minati, meno dolorosi. Si sforza di mantenere uno sguardo «istituzionale», ma a tradirlo è proprio il volto. È stanco, le rughe sul volto come cicatrici profonde sembrano rimandare a notti senza sonno, a nervi tesi, a pensieri che tornano ogni volta e che non riesce a scacciare. Fini aveva esordito parlando del disgusto che la pubblica opinione ha verso i politici. E Santoro lo ha costretto a fare i conti proprio con quella pubblica opinione, proprio con quel disgusto. Lo ha messo di fronte alla sua contraddizione, al suo sdoppiamento, da una parte politico «moralizzatore», dall'altro uomo coinvolto in una vicenda poco chiara e che non ha mai contribuito a chiarire.
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