Una volta Mario Draghi amava la diplomazia del silenzio, quel gestire il potere quasi in stile cucciano. Da quando è al timone della Bce, in un contesto economico più complicato dellultimo teorema di Fermat, ha deciso che unalzata di sopracciglio a volte non basta. Senza mai scivolare in rozzezze dialettiche da sfasciacarrozze, lex governatore di Bankitalia ha cominciato a menare qualche fendente senza guardare in faccia a nessuno, fosse pure la Germania della Merkel, il Fondo monetario della Lagarde, o il Tesoro americano nella pallida incarnazione di Tim Geithner. Certo meno timido di Jean-Claude Trichet, lui non fa sconti. Soprattutto se cè da difendere loperato dellEurotower o in ballo quellortodossia fiscale di cui è paladino.
Sul rigore estremo non transige, convinto comè che tra un patto europeo per la crescita e il fiscal compact per il risanamento «non cè contraddizione» perché il consolidamento fiscale garantisce crescita «a lungo termine». Concetto chiaro, espresso ieri in una blindatissima Barcellona (la Spagna ha sospeso perfino gli accordi di Schengen) dove la Bce ha tenuto il proprio direttivo. Sui tassi, rimasti inchiodati all1%, il board non ha imbastito la benché minima discussione. Draghi, del resto, ha ben altre idee su come stimolare la crescita, dare linfa vitale al cosiddetto growth compact europeo: più che tagli del costo del denaro, servono tagli alla spesa pubblica, meglio se quella corrente.
Insomma: la palla viene rilanciata nella metà campo dei governi. Ed è qui che Draghi, dopo aver elogiato lItalia per i «notevoli progressi» compiuti nel processo di risanamento, rifila una bacchettata a Mario Monti, pur senza chiamarlo direttamente in causa come è duso tra i banchieri centrali. Il fine non sempre giustifica i mezzi, è il ragionamento del leader dellEurotower. E se dunque lopera di riequilibrio delle finanze pubbliche è meritoria, cè modo e modo di inseguire il risanamento. «Purtroppo - osserva il presidente della Bce - molti governi quando si trovano in una situazione di emergenza scelgono la via più facile, quella di aumentare le tasse». Una mano pesante che il premier italiano, ora alle prese con il non facile compito della spending review, non ha certo risparmiato al Paese, al punto da far soffiare persino venti di ribellione fiscale.
Consapevole che le manovre emergenziali hanno sempre un effetto collaterale depressivo, Draghi spinge quindi in direzione di una diversa ridistribuzione degli sforzi e torna a ribadire lurgenza di riforme strutturali. Solo così è possibile afferrare la crisi alla gola, garantire un futuro ai troppi disoccupati nelleuro zona (il 10,7%) attraverso un new deal del mercato del lavoro imperniato su tre cardini: «Flessibilità, mobilità, equità». Laddove per equità si intende la rimozione delle norme attuali che «rendono flessibile il segmento dei più giovani mentre il resto è pienamente protetto». E con troppa gente a spasso, salgono le tensioni sociali. «Posso capire molto bene le ragioni di chi protesta per il lavoro che manca - spiega Draghi - senza condividere le violenze». Limperativo, perfino ovvio, è «creare posti di lavoro». Si tratta di una sfida complicata in uno scenario ancora dominato dalla crisi del debito sovrano e con prospettive di ripresa solo graduale collocate dalla Bce non prima del secondo semestre 2012, ma che si può affrontare anche con laumento delle risorse destinate alle infrastrutture «reincanalando i fondi europei destinati alle aree a basso reddito».
Ancora una volta, Draghi ha difeso le strategie di sostegno della Bce, in particolare le due maxi-aste con cui sono stati prestati alle banche 1.000 miliardi a tassi vantaggiosi. Unerogazione di denaro mal accolta dalla Bundesbank, ma che secondo Draghi è servita a evitare «un maggiore credit crunch (una crisi di liquidità, ndr): da questo punto di vista è stata un successo». Eppure, almeno finora, leconomia reale non sembra averne beneficiato.
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