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G8 di Genova, dopo la sentenza i condannati si danno alla fuga

Gli autonomi con le pene più pesanti si sottraggono al carcere. Sono Francesco Puglisi e Vincenzo Vecchi, che devono scontare 15 e 13 anni

G8 di Genova, dopo la sentenza i condannati si danno alla fuga

Missing. Scomparsi, dopo la condanna. Formalmente «irreperibili». Non si hanno più tracce di due dei pochi no global ritenuti responsabili, in via definitiva, dei clamorosi incidenti al G8 del 2001 che coinvolsero migliaia di manifestanti. Francesco Puglisi (15 anni di prigione) e Vincenzo Vecchi (13 anni) non si trovano più. La polizia che doveva notificare a entrambi l'ordine di immediata carcerazione della procura generale di Genova, ha bussato a vuoto a due indirizzi su cinque, tant'è che ieri hanno fatto il loro ingresso in cella solo Alberto Funaro (10 anni) e Marina Cugnaschi (12 anni). Non Inesc Morasca che ha evitato la galera in extremis, con la sospensione della pena in quanto mamma di una figlia piccola. Pur se condannati in secondo grado restano liberi pure altri cinque presunti teppisti per i quali la Cassazione ha disposto un nuovo processo d'appello.

Chi ha avuto la condanna più alta, dunque, al momento ha preferito non farsi trovare all'appuntamento con la giustizia. Francesco «Jimmy» Puglisi, detto «molotov», catanese, arrestato nel 2000 per detenzione di quattro detonatori e 30 candelotti di dinamite, finì nella retata della procura genovese che a dicembre 2002 portò in prigione 23 manifestanti. Le accuse spaziavano dalla devastazione al saccheggio, dal porto e detenzione di materiale esplodente alla resistenza aggravata a pubblico ufficiale. Davanti al gip ammise gli addebiti tra i quali il lancio di una molotov passata al volo da un black bloc. Foto e filmati lo «registrano» mentre prende parte all'assalto ed esulta davanti al blindato dei carabinieri in fiamme, incita all'assalto in via Casaregis, assalta esercizi commerciali in corso Marconi, lancia molotov contro Area Banca. Un teste ha persino raccontato (e fotografato) Puglisi che dallo zainetto estraeva e lanciava molotov a ripetizione.

Quanto a Vecchi vale il discorso fatto per il collega «irreperibile» quanto a contestazione dei reati. Le indagini appureranno la sua appartenenza a un gruppo anarchico milanese e il suo contraddistinguersi nel blocco nero che saccheggiò il cantiere di piazza Savonarola, assaltò l'agenzia del Credito italiano in corso Buenos Aires, alzò le barricate in corso Torino. La Digos lo vede spesso nelle immagini finite agli atti, la pubblica accusa scriverà che Vecchi si fa riconoscere mentre ha «in mano una bottiglia incendiaria e sta dando fuoco a un copertone, distrugge con altri un'auto, partecipa, bastone in mano, all'assalto con un randello metallico della Banca Carige, si contrappone alla polizia, e presente nel supermercato Di per Di distrutto e saccheggiato (...) mentre distrugge a bastonate un'auto dei metronotte» eccetera. All'anarchico milanese è stato contestato anche il reato di rapina a un fotorerporter poi «assorbito in quello più vasto di devastazione e saccheggio». Per chi ha sostenuto l'accusa, Vecchi in entrambi i giorni dell'inferno di Genova si muoveva «in modo organico al blocco nero, si travisava, danneggiava, si allontanava, riprendeva i danneggiamenti, si contrapponeva alle forze dell'ordine». Si muoveva a elastico, insomma, interpretando al meglio le tecniche della nuova guerriglia urbana: colpisci e scappa, colpisci e scappa.

Ora che la giustizia ha colpito lui (forse) è scappato.

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