Genova - La fotografia di don Gianni è la casa di don Gianni a Genova, via Corsica, quartiere Carignano: scaffali strapieni di libri – libri letti, usati, consumati, non libri da fondale o da complemento d’arredo – in tutte le lingue. Libri italiani, libri latini, libri spagnoli, libri francesi, libri inglesi... E poi i computer di Alessandro, di Gianteo, di Aurora, di Gabriele, dei suoi ragazzi, dei ragazzi di Ragionpolitica. I discorsi in latino di don Gianni e la sua straordinaria capacità di capire il web prima degli altri, tanto da mettere in piedi la prima scuola di formazione politica in rete.
La fotografia di don Gianni è il contatto di don Gianni con il potere: la Dc, Taviani, Tambroni, Craxi, Berlusconi. Sempre vicinissimo ai leader, capace di influenzarli con le sue straordinarie intuizioni. Ma anche, sempre, don Gianni: povero, umile, assolutamente spartano nelle sue scelte di vita. Quasi un mistico lontano dal mondo, anche se enormemente immerso nel mondo.
La fotografia di don Gianni è la tonaca a cento bottoni che non ha mai smesso da quando il cardinal Siri lo ordinò a 42 anni.
L’essere completamente «don Gianni» a cui non ha mai rinunciato, la sua messa quotidiana, a volte detta anche sull’altare di casa, con i due messali sistemati alla bell’e meglio. Ma anche l’essere completamente «il politologo Baget Bozzo», non rinunciare a intervenire in continuazione sulle cose della politica e del mondo, che lo portò a diventare eurodeputato del Psi nel 1984 per portare avanti il suo progetto di modernizzazione e di normalizzazione della politica e della società italiana e poi a essere il consigliere più ascoltato di Silvio Berlusconi e il responsabile della formazione azzurra. Reati che gli costarono prima una lunga sospensione a divinis dello stesso Siri e poi un richiamo di Tettamanzi, allora cardinale a Genova.
La fotografia di don Gianni è la sua capacità di occuparsi dei massimi sistemi, degli assetti planetari prima e dopo l’elezione di Obama, ma anche delle piccole cose del Pdl ligure. Proprio ieri pomeriggio, ad esempio, aveva in agenda il classico appuntamento mensile con il coordinatore Michele Scandroglio, dove parlavano di tutto. Anche scontrandosi, come capitava con gli interlocutori che stimava. O anche l’amicizia con un antico compagno e navigatore della politica, maestro di ogni subemendamento, come il senatore Gigi Grillo, che proprio ieri ricordava affranto di come il conforto di don Gianni fu decisivo per portarlo a fare il grande passo di entrare in Forza Italia lasciando il Ppi e permettere così la nascita del primo governo Berlusconi nel 1994. O, ancora, i grandi amori e i grandi scontri con Claudio Scajola, che del Pdl ligure è un po’ il capo.
La fotografia di don Gianni è l’immagine di lui con la cintura che cede e i pantaloni che cadono davanti a Berlusconi che tante ridicole ironie scatenò nella stampa di sinistra e soprattutto nella categoria dei radical-chic in servizio permanente effettivo, pronti a fucilarlo per lesa eleganza.
Ma, contemporaneamente ai pantaloni che cadono, è lui che fa analisi perfette della situazione politica italiana, con articoli che anticipano quello che accadrà mesi, quando non anni, dopo. La sua curiosità attuale, la sua visione profetica, la sua capacità di lettura delle leadership e della loro adesione al popolo, fanno di Gianni forse il maggior intellettuale della storia della politologia italiana. Certo, quello che ha vissuto anche sulla propria pelle le sue intuizioni. Una su tutti: Forza Italia prima e il Popolo della libertà poi. Se Berlusconi ha avuto il genio politico di inventarseli, prima ad Arcore e poi sul predellino, Baget Bozzo ha avuto il genio politologico di teorizzare quello che Berlusconi aveva creato. Senza quasi rendersi conto che era proprio quella roba lì. E Ragionpolitica e il suo gruppo di giovani – forse un po’ snobbati dal Pdl – sono la sua eredità più bella.
La fotografia di don Gianni è il suo linguaggio alto, la sua naturalezza nel parlare in latino come fosse la sua prima lingua. Ma, contemporaneamente, la capacità di usare anche immagini forti, un linguaggio sboccato, perfetto per scandalizzare i benpensanti. Un po’ come Sant’Agostino con la sua «ecclesia casta et meretrix», santa e puttana. E così don Gianni, alla vigilia del Gay pride più discusso, quello di Roma, non ebbe paura di confessare i sentimenti omosessuali provati.
Oppure, si dichiarò «bastardo», ricordando di non avere mai visto suo padre. O, ancora, quando disse: «Ammetto di essere vanitoso ed esibizionista, probabilmente sono una puttana nata». E quando qualcuno gli rinfacciava la frase lui, serafico: «Posso anche averlo detto, ma non me lo ricordo».
Comunque, sempre, eternamente, politicamente scorretto. Ricordo quando mi incitava ad attaccare le gerarchie ecclesiastiche («bisogna prendere loro il tempo») o i suoi attacchi ai vescovoni anticapitalisti, antiamericani e pacifisti di sinistra. Posizioni che lo ponevano sempre al centro degli sfottò dei paladini del politically correct, da Enzo Biagi che disse «questo prete sembra un’agenzia di stampa» a Piero Chiambretti che lo mise alla mercé del cardinal Tonini di turno.
La fotografia di don Gianni è quella di un’anima eternamente inquieta – che dispensa certezze cercandole lui per primo – di un cervello che corre continuamente da un lato all’altro del pensiero, senza che noi si riuscisse a stargli dietro.
Curioso di una curiosità senza freni, senza limiti. Eppure capace di preoccuparsi veramente per ciò che studiava e di cui si occupava. I suoi amici, negli ultimi giorni, lo vedevano un po’ agitato: un po’ per il caso di Veronica, che secondo lui aveva tradito la fiducia di Berlusconi. Molto, per la Lega. Temeva le fibrillazioni recenti del Carroccio e le sue ripercussioni sul governo. Lo diceva a tutti, da settimane. E in qualche modo le ha somatizzate.
L’altroieri pomeriggio, a uno degli angeli che lo circondava, ha confidato: «Sento un’ombra nera su di me». Ed era quasi un presagio, un qualcosa di soprannaturale confermato anche da una lontana nipote in Spagna. Che, quando l’hanno chiamata per informarla della morte di Gianni, ha detto: «Sì, lo so, alle cinque». Per la cronaca, è morto davvero alle cinque. Ma i medici l’hanno stabilito solo dopo.
La fotografia di don Gianni era quella di essere uno di noi, uno della famiglia del Giornale. Uno che capì – anche stavolta prima di tutti – che noi non siamo solo giornalisti e voi non siete solo lettori. Ma che, insieme, siamo un popolo.
Ieri, nella bara, il suo viso era sereno, rilassato, quasi beato. Chissà, forse, per l’ennesima volta, ha visto prima cosa lo aspetta.
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