Roma - Con buona pace di Mario Monti, è Giorgio Napolitano il vero protagonista della politica italiana da qualche mese. Il Re Sole che non dice ma pensa: « L’État c’est moi ». Da quando ha soprinteso all’archiviazione del Berlusconi- quater, egli non ha più smesso di orientare, strigliare, ammonire, chiedere. In poche parole decidere, facendo impallidire il ricordo di quando il presidente della Repubblica era una sorta di ben lucidato soprammobile istituzionale, del quale se era riservato si diceva che svolgeva bene il suo ruolo e se metteva i piedi sul tavolo- come accadde a Francesco Cossiga - che era un anziano un po’rincitrullito.
Ma di fatto non era mai esistito un «governo» più quirinalesco di quello presieduto da Monti, maggiordomo del Colle con uso di partita doppia. L’economista italomondiale del resto è stato scelto da Napolitano proprio per incarnare perfettamente quella figura ideale di tecnico poco avvezzo alle malizie della politica e per questo più facilmente influenzabile dall’inquilino del Quirinale. Il «governo Napolitano» sorge ancor prima che tramonti Berlusconi. Per evitare il rischio di paralisi istituzionale e rassicurare i temutissimi mercati esteri, è il presidente della Repubblica in persona a farsi garante della dipartita di Berlusconi da Palazzo Chigi, andando ben oltre le sue funzioni.
È il 9 novembre 2011. Di lì a qualche giorno, dimessosi Berlusconi, Napolitano definisce l’agenda del nuovo governo, fissandone addirittura la durata minima nel tempoentro il quale scadranno 200 miliardi di buoni del Tesoro. Il 16 novembre nasce il governo Monti-Napolitano e il capo dello Stato, dopo aver dato precise istruzioni sul mandato economico, si può divagare così: «Mi auguro che in Parlamento si possa affrontare anche la questione della cittadinanza ai bambini nati in Italia da immigrati stranieri. Negarla è un’autentica follia»,come pontifica il 22 novembre suscitando non poche polemiche. Giungono poi i giorni del decreto «salva Italia»: il 2 dicembre Monti si reca al Quirinale per guadagnarsi l’ imprimatur presidenziale e blindare l’iter parlamentare del provvedimento. E quando il sì dell’Aula arriva, il 17 dicembre, Napolitano incensa il Parlamento: «Una grande prova».
Ma è chiaro che è il successo è tutto suo. Incoraggiato, pochi giorni, dopo il capo dello Stato rimette mano all’agenda politica elencando le emergenze da sanare: legge elettorale, giustizia e Mezzogiorno. E in fretta, please . Passano le feste, e il 12 gennaio Napolitano entra di nuovo a gamba tesa sulla politica. Quel giorno la Corte Costituzionale boccia il referendum sull’abolizione della legge elettorale e il capo dello Stato chiede al Parlamento di «proporre e adottare modifiche della vigente legge elettorale secondo esigenze largamente avvertite dall’opinione pubblica». Pochi giorni dopo, il 21 gennaio, insiste: «Sulla legge elettorale, il Parlamento agisca rapidamente». E a proposito di riforme, il 31 gennaio a Bologna Napolitano alza il tiro, suggerendo di dare il colpo di grazia alle Province.
E il 23 febbraio l’inquilino del Quirinale non perde l’occasione di bacchettare ancora il Parlamento e l’uso disinvolto degli emendamenti che snaturano i decreti legge (vedi il cosiddetto Milleproroghe), nonché l’abuso di decretazione d’urgenza e voto di fiducia. Patologie procedurali che potrebbero rendere necessario «modificare i regolamenti parlamentari». Arriva marzo e scoppiano i casi Lusi e Belsito, che danno fiato alle sirene dell’antipolitica.
Napolitano non lascia la scena e si infila nello strettissimo percorso tra i moniti alla moralità dei partiti (il 4 aprile chiede di «sancire per legge regole di democraticità e trasparenza nella vita dei partiti») e gli allarmi sulla deriva populista («non bisogna demonizzare i partiti», avvisa il 18 aprile). Fino al discorso di Pesaro. Quello in cui Super Napolitanoferma a mani nude Grillo e i demagoghi.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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