Politica

Governo a caccia di consensi: addio soldi pubblici ai partiti

RomaAveva promesso la «sorpresina» a Grillo, e in poche ore è arrivata. Renzie (Matteo Fonzie), come lo chiama Beppe, ha dettato subito l'agenda di Enrico Letta, e con una novità non da poco: abolizione del finanziamento pubblico ai partiti, approvata con decreto dal consiglio dei ministri. Una rivoluzione a cinque giorni dalle primarie del Pd. Come in una commedia già scritta, Letta enfatizza il risultato su Twitter: «Avevo promesso di chiudere entro l'anno», e Matteo lo retwitta, rilancia il suo messaggio di entusiasmo. Il Partito democratico si inchina al nuovo Re Mida della politica, che qualsiasi cosa tocchi adesso trasforma in oro. Ma Grillo non demorde, anzi se la ride: «Poche chiacchiere, restituiscano, ora, il maltolto - scrivono subito a una voce i parlamentari cinque stelle in una nota congiunta - Non c'è bisogno di una legge per restituire i soldi ricevuti illegittimamente dai partiti. Letta e Renzi anziché partorire tweet, diano indietro i 18 milioni di euro già intascati lo scorso luglio e rinuncino a tutti i 46 milioni». I grillini non parlano a vanvera, si riferiscono a una recentissima questione di legittimità sollevata dalla Corte dei Conti: tutte le leggi degli ultimi vent'anni sul finanziamento pubblico ai partiti sarebbero illegittime, perché hanno disatteso la volontà popolare espressa con il referendum del 1993. Altroché abolizione, qui ci vuole una grande restituzione: circa un miliardo di euro, dice poi Grillo in prima persona, gridando su Twitter alla «presa per il c...»: tutti «rimorsi definiti illegittimi dalla Corte dei Conti». Novantuno milioni solo nell'ultima tornata estiva: «Venda i suoi immobili per ridarli ai cittadini. Basta con le balle d'acciaio. Fatti, non pugnette», la chiusa del leader stellato. Senza contare che il decreto legge entrerà in vigore non nel 2014, e nemmeno nel 2015, ma nel 2017. Renato Brunetta vede invece lo sbandierato decreto del new deal come un trucchetto da propaganda di bassa lega: «Prendiamo atto del trucco del governo, che trasforma il disegno di legge approvato dalla Camera in un decreto legge che deve ripartire da zero. Bastava che al Senato ponessero la fiducia». Le stesse disposizioni erano infatti contenute in un disegno di legge approvato alla Camera e che doveva essere discusso in Senato. A Palazzo Madama partirà anzi il dibattito sul ddl-dl «comunque» precisa il senatore del Pd Luciano Pizzetti. Il binario lento va avanti indipendentemente dall'accelerata del duo Letta-Renzi. Anche se ora il parlamento dovrà solo convertire e non legiferare.
La tenaglia dell'opposizione si è insomma subito chiusa intorno al sogno del partito renzizzato. Le lodi per Matteo dal Pd ieri erano all'apice. «Oggi è cominciata la rivoluzione italiana: quella pacifica, razionale e fattiva del Partito Democratica di Matteo Renzi - esultava il sindaco di Bari, Michele Emiliano - Questa volta, con decreto legge urgente, non sono state imposte nuove tasse come accaduto ad opera dei governi precedenti. Comincia l'era del Partito democratico che dice una cosa e poi la fa».
Qualcuno dall'opposizione invece inizia a sollevare sospetti di anticostituzionalità: con tutti i problemi che soffocano il Paese, dice ad esempio il deputato di Forza Italia Luca Squeri, sorge un dubbio sull'urgenza del decreto: «La necessità e l'urgenza che sarebbero alla base del decreto non saranno quelle di un governo che ha fretta di disinnescare la mina Renzi?». Tantopiù che c'era il testo già pronto in Senato.
Per l'occasione rientra nel dibattito Antonio di Pietro. Anche da lui arriva un contributo per svelare il retroscena del decreto Letta-Renzi: «Dopo il solito annuncio pubblicitario, il governo ha spiegato che l'abrogazione ci sarà, ma dal 2017, e che tra l'altro il decreto riprende il testo già votato alla Camera».

Nelle dichiarazioni del capogruppo del Pd alla Camera Roberto Speranza c'è l'ammissione del «trucchetto», per citare Brunetta: «È positivo che il governo abbia recepito il testo della Camera, vogliamo dare un segnale: in una fase di crisi, la politica si riforma».

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