RomaImmancabile come il panettone a Natale, quando si parla di mercato del lavoro salta fuori l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori che impedisce il licenziamento alle aziende con più di 15 dipendenti. Un tabù. Da sempre è un totem intoccabile soprattutto per sindacati e sinistra. Ma non per il governo Renzi. Ieri, a tirar fuori l'argomento spinosissimo è stata il ministro dello Sviluppo economico, Federica Guidi. La quale, rispondendo a una domanda di Maurizio Belpietro, è stata netta: «Nel mercato del lavoro serve più flessibilità in ingresso ma anche più flessibilità in uscita». Il ministro ha subito precisato che la sua è «un'opinione personale che deriva anche dal mestiere, quello di imprenditore, fatto fino a pochi mesi fa». Ma l'apertura c'è stata eccome, inserita in quella che è la mission del governo: «snellire, semplificare un sistema troppo irrigidito, smantellare un sistema di burocrazia, norme e vincoli che allo stato dell'arte sembra non sia servito a nulla. Il che non vuol dire nessuna regola o un mercato selvaggio ma rendere più efficace l'incontro tra domanda e offerta di lavoro».
Basta questo per far tremare il palazzo. Ma il ministro competente, Giuliano Poletti, di infilarsi nella diatriba art. 18 sì o no, di voglia non ne ha: «Non discuto dell'articolo 18 se non all'interno di un ragionamento generale - ha detto il ministro del Welfare -. Non ha senso fissare un unico punto. L'efficacia di una misura è figlia dell'equilibrio complessivo delle norme. Abbiamo fatto tanti danni e una singola misura va valutata all'interno di un ragionamento generale». Tuttavia anche il titolare del Welfare un'apertura la fa: «Non credo che si possa rimanere a lavorare in un'impresa a lavorare perché si è figli di una condanna. Io continuo a credere che il rapporto tra un lavoratore e un'impresa sia figlia di una libera scelta».
Ma come è davvero orientato il governo sul tema? Opinione diffusa è che l'argomento venga più che altro utilizzato come pistola carica, da mettere sul tavolo di una trattativa complicatissima. Le parti in gioco sono note: da una parte l'esecutivo, dall'altra i sindacati ma soprattutto pezzi di maggioranza che il governo dovrebbero sostenere. La sinistra del Pd, infatti, già non ce la fa ad ingoiare l'ultimo decreto partorito da palazzo Chigi. Stefano Fassina è netto nel mettersi di traverso: «Il decreto allarga enormemente l'area della precarietà e determinerà una diminuzione di posti di lavoro - ha tuonato -. Le norme hanno bisogno di cambiamenti significativi, sia sull'apprendistato, sia sui contratti a termine. E proporremo a tutto il gruppo parlamentare del Pd di intervenire».
Insomma, all'orizzonte si prevede un Vietnam parlamentare scatenato proprio dal partito di Renzi. Il quale potrebbe tirar fuori l'arma dell'art. 18 come spauracchio. La minaccia suona un po' così: «Considerate la mia riforma che introduce elementi di flessibilità sui contratti a termine e l'apprendistato un rospo troppo grande da ingoiare? O questo o quello, ancora più grande, dell'articolo 18». Tant'è vero che l'altro azionista di maggioranza, l'alfaniano Maurizio Sacconi lo dice chiaro e tondo: «Il decreto legge sul lavoro non si tocca.
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