Il governo delle occasioni sprecate. Avrebbe potuto cambiare l'Italia. Aveva un programma, per quanto non scritto, chiaro e definito. Bastava metterlo in atto. Invece niente. Abbiamo chiesto una riforma organica del sistema di tassazione degli immobili, ed è venuto fuori il pasticciaccio brutto della Iuc. Non si è messo mano alla Pubblica amministrazione. Non è stato fatto l'attacco al debito. Non è stato ultimato l'accordo bilaterale con la Svizzera per il rientro dei capitali. Non sono stati introdotti i costi standard in sanità. I tagli alla spesa pubblica sono solo virtuali. Non si è realizzata l'accelerazione dei pagamenti dei debiti della Pa.
Infine, abbiamo proposto la rivalutazione del capitale della Banca d'Italia, ma il governo ha presentato troppo tardi un decreto scritto male. Tanto male che è bloccato a Francoforte dalla Bundesbank e dalla Bce. Già prima dell'estate, l'allora Pdl aveva fornito al ministro Saccomanni la propria proposta di calcolo del valore del capitale, con le relative procedure di Legge. Fatta bene e in tempo, da questa operazione sarebbero derivati benefici per tutti. Invece il Mef ha solo accumulato ritardi. Troppe incertezze, troppi tempi persi. Ecco i punti critici.
Lo strumento normativo
Il governo ha inserito la norma relativa alla rivalutazione del capitale della Banca d'Italia nello stesso provvedimento di cancellazione della seconda rata dell'Imu 2013 sulla prima casa, spalancando le porte ai rilievi della commissione Affari costituzionali del Senato, legati alla non omogeneità delle materie contenute nel decreto, nonché alla non effettiva necessità e urgenza di fare ricorso a tale strumento.
Il valore troppo basso
Il valore contenuto nel decreto di rivalutazione del capitale della Banca d'Italia (7,5 miliardi) è quello giusto? Diversi calcoli sarebbero stati possibili e avrebbero portato a una valutazione del capitale della nostra Banca centrale (attualmente 156mila euro) fino a 30 miliardi di euro. Nel procedere alla determinazione del capitale si parte dai dividendi distribuiti dalla Banca nel 2012, in percentuale sul capitale a bilancio (156.000 euro), valore che risale al 1936. Se solo si fosse applicata la rivalutazione monetaria degli indici Istat, oggi quel capitale varrebbe circa 320 milioni.
A questo primo elemento si somma la cosiddetta «partecipazione al fruttato (il rendimento) delle riserve ordinaria e straordinaria» dello 0,5%, quando lo statuto della Banca d'Italia prevede un limite del 4%. Se si fosse partiti da questo secondo valore, la valutazione finale avrebbe portato a un importo ben più alto, fino ad un massimo di quasi 30 miliardi. Al 31 dicembre 2012 gli utili netti di Banca d'Italia erano pari a 2,5 miliardi: per cui ipotizzando un price earning (moltiplicatore degli utili per ottenere il valore dell'asset) di 10 si raggiunge la cifra di 25 miliardi. Per avere un'idea del carattere conservativo di questa valutazione si consideri che il price earning di Unicredit è pari a 30. Se questi parametri sono ritenuti insufficienti, si guardi al capitale complessivo (comprensivo delle riserve accumulate) di Banca d'Italia, che, sempre al 31 dicembre 2012, era pari a 21 miliardi e 774 milioni. Oppure si consideri l'attivo iscritto a bilancio. Si tratta di circa 610 miliardi. Non tutto può essere considerato patrimonio netto, ma tra oltre 610 miliardi e 25 miliardi esiste una bella differenza.
Il tetto del 5%
Articolo 4, comma 4, del decreto: possono detenere le quote di partecipazione al capitale della Banca d'Italia banche e imprese di assicurazione e di riassicurazione aventi sede legale non solo in Italia, ma anche in uno Stato membro dell'Unione europea diverso dall'Italia. Tradotto, significa che qualsiasi istituto finanziario straniero è nella posizione di acquistare quote dell'istituto di via Nazionale. Così facendo, il ministro Saccomanni dà all'estero l'impressione che l'Italia sia un paese in offerta speciale. Rischiamo di realizzare proprio ciò che abbiamo in tutti i modi cercato di scongiurare e che i predatori dalla tripla A, invece, aspettavano da tempo: la vendita a prezzi stracciati dei nostri gioielli di famiglia, inclusa la Banca centrale.
Perplesse Bundesbank e Bce
Che con riferimento alla rivalutazione del capitale della Banca d'Italia qualcosa non andasse nel verso giusto si è capito fin da subito, quando l'approvazione del decreto è stata più volte rimandata. Si è detto in attesa di un apposito parere (obbligatorio) della Banca centrale europea. Ma così non è: questo famigerato parere è ancora fermo a Francoforte per l'opposizione della Bundesbank, che ha fatto diversi rilievi al testo del ministro Saccomanni, sia a livello tecnico, quanto a livello politico, dato che l'ex vicepresidente della Bundesbank, Christoph Zeitler, ha accusato il governo Letta di fare «contabilità creativa». Torniamo di nuovo a chiederci: non era Saccomanni l'uomo della Provvidenza, l'uomo in grado, con la sua esperienza e la sua credibilità, di rimettere a posto le cose della nostra dissestata finanza pubblica? Considerata, come abbiamo visto, l'estrema variabilità dei possibili risultati circa il valore finale del capitale della Banca d'Italia, la scelta dei modi e dei metodi da adottare per la rivalutazione del capitale non può che essere di natura politica, pur fondandosi su parametri oggettivi. Dal punto di vista del valore, per giungere alla migliore soluzione è necessario uscire dal circolo vizioso dell'approccio contabile e valutare agli effetti indotti della possibile decisione. Più alta è la valutazione cui si giunge per Banca d'Italia, maggiore è la patrimonializzazione degli shareholders e più elevate le entrate dell'Erario a seguito del pagamento inerente le plusvalenze. Non nascondiamo, naturalmente, le controindicazioni. Aumentare il valore del capitale della Banca d'Italia significa scontare, per il futuro, il riconoscimento di possibili maggiori rendimenti da devolvere agli shareholders. Ma qui abbiamo dei margini, che derivano dallo Statuto della Banca d'Italia. L'unico obbligo che esiste è quello previsto dall'articolo 39 dello statuto: «ai partecipanti sono distribuiti dividendi per un importo fino al 6% del capitale». Si badi bene: non del 6%, ma fino al 6%. Per quanto riguarda, infine, la soglia del 5% inserita con riferimento alla percentuale di possesso dei diversi azionisti, riteniamo che essa non può che essere eliminata, in quanto rende «aggredibile» la nostra Banca centrale da parte di qualunque istituto bancario o assicurativo, tanto italiano quanto, soprattutto, estero. La domanda, a questo punto, è una sola.
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