Da selvaggio purosangue del galoppo a casereccio routinier del trotter. Il cavallo di razza trasfigura nel Renzino ormai sotto i nostri occhi, giorno dopo giorno, goccia dopo goccia. Cambia il passo, muta la natura del presidente del Consiglio e forse pure la sostanza. Non la consueta propensione per la pugna elettorale, per le battute da agit-prop dell'era Web del cinguettio, per i suadenti bagni di folla («che bello incontrare la gente!», garrirà in favore di telecamera). Tanto da ammetterlo, davanti ai famigli della Direzione del Pd: «In questi giorni la priorità è fare la campagna elettorale, lavoriamo a testa bassa per portare il risultato migliore». Spiega come giocare d'attacco e incita a non aver timidezze. Invoca tregua interna: «I rigurgiti di polemiche mettiamoli da parte». Quindi attacca Grillo, il gran nemico, «gufo e sciacallo» di una campagna che «sta diventando un derby tra rabbia e speranza». Ma ciò che si nota, già da un po' di settimane, è il ritmo renziano che scema, cede il passo, vede infrangere sugli scogli della realtà molte delle fanfare e fanfeluche che pure avevano sgombrato la strada per Palazzo Chigi. Il premier s'avvita su se stesso come un selfie imbambolato, paralizzato come appariva l'altra sera sulla tribuna dell'Olimpico, quando l'inno di Mameli veniva sommerso da fischi e pur dovevano fischiargli un po' le orecchie (ieri sera s'è infine sfogato in tivù da Vespa). Matteo Renzi annaspa come la Fiorentina contro il Napoli: giusto qualche sprazzo qua e là, dopo aver fatto sperare di meglio. La velocità di realizzazione non è quella d'un tempo. «Però vacci piano», gli dice Epifani al termine della Direzione. E lui celia (ma neppure troppo): «Infatti, hai visto, mi son fermato».
Renzi è un velocipede zoppo. Anche sulla pista delle riforme, per debolezza di garretti, fa come la volpe con l'uva d'Esopo: dice che è una sua scelta «per evitare lo scontro», però state sereni che «le portiamo a casa». La spiegazione arriva da un seminario sulle riforme organizzato (tambur battente) dal Pd. Servono tempi stretti, ma soprattutto «certi», fa ammenda Renzi. «Altrimenti non avremo la credibilità per parlare con la gente». Però guai a «farci mettere ansia». Niente «frenesia», predica ora Matteo, insofferente delle accuse di «improvvisazione». «Non è l'esigenza di far veloce perché qualcuno gode nel far veloce, ma c'è la certezza che se non si cambia l'Italia resterà fanalino di coda in Europa, perché nella Ue guardano prima alle riforme istituzionali che a quelle economiche». E ancora: «Non stiamo cercando di dare rapidità alla decisione perché abbiamo chissà quale paura di discutere nel merito e del confronto, anche aspro: vogliamo discutere a 360 gradi, con i professoroni e i professorini, ma poi bisogna decidere...».
Al seminario ascolta le critiche di alcuni dei «professori» in sala, annota i loro nomi a penna sul retro di un volumetto arancione, poi la critica di Onida («le riforme non si fanno per risparmiar soldi»). E sul presidenzialismo chiesto da Berlusconi, scrive: «Dopo». Dopo le riforme del Senato e del titolo V. Ma soprattutto «dopo» le Europee, che il premier tiene a non far diventare un primo test sul proprio operato. «Sbaglia chi dice che da esse dipende la stabilità del governo».
Nell'arringa difensiva lunga come l'ennesima giornata sprecata in propaganda elettorale prende corpo sempre con maggior evidenza l'arruffapopolo che mescola pulsioni della pancia elettorale con le consuete considerazioni banali. Chissà: un giorno forse scopriremo che non era un asso, ma il solito due di picche.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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