Economia

Padoan pensi alle aziende, anziché tassare le rendite

Sono morte 75mila piccole-medie impres. Si concentri su questo dramma (con tanto di collegati suicidi di imprenditori), caro ministro Padoan, e lasci stare le "rendite" finanziarie

Padoan pensi alle aziende, anziché tassare le rendite

Se nel primo trimestre di quest'anno si registra qualche timido segnale di ripresa, la situazione maturata in questi ultimi 5 anni di crisi è stata drammatica: l'Italia ha perso oltre 75mila imprese artigiane. Lo ha rilevato la Cgia di Mestre, secondo cui l'artigianato è stato il comparto più colpito dalla recessione. Le costruzioni, i trasporti e il manifatturiero (metalmeccanica, tessile, abbigliamento e calzature) sono stati i settori che hanno segnato le performance più negative. A fronte di questo bollettino di guerra, il nostro ministro Padoan ha avuto la dabbenaggine di condividere con l'Italia un tweet del tipo: «Aumentano le tasse sulle rendite finanziarie. La finanza al servizio di impresa e lavoro», per inutilità pari forse solo al «le tasse sono una cosa bella» di padoaschioppiana memoria. Chissà perché i nostri ministri dell'Economia sentono costantemente il desiderio di lanciare messaggi salvifici, con risultati quantomeno discutibili, mentre le imprese affondano. Si concentri su questo dramma (con tanto di collegati suicidi di imprenditori), caro ministro Padoan, e lasci stare le «rendite» finanziarie. L'aumento delle tasse sulle rendite è una colossale sciocchezza, per due ordini di motivi: materiale e morale. Cominciamo dal primo. L'aumento delle tasse sulle rendite provoca una serie di conseguenze negative sulle imprese, al contrario di quanto auspicato dal ministro. Il motivo è banale: più elevata è la tassazione sui proventi degli investimenti azionari (dividendi e capital gain), meno conveniente è l'investimento azionario, più difficile diviene per le aziende raccogliere capitale per finanziare il proprio sviluppo. Riflessi negativi si realizzano anche sul mercato azionario, dove le nostre società sono destinate a valere meno delle loro concorrenti. Infine, l'incremento della tassazione allontanerà ulteriormente gli investitori dal nostro mercato azionario, rendendolo ancora più asfittico.

L'aumento delle tasse sulle rendite è censurabile anche da un punto di vista morale. Primo, considerare rendite finanziarie anche i depositi bancari, vuol dire ad esempio che la mia mamma con la sua pensione di reversibilità è una sporca capitalista che va perseguitata. Secondo, non si capisce per quale motivo i titoli di Stato siano sempre avvantaggiati fiscalmente rispetto alle attività finanziarie private. A ben vedere, eticamente dovrebbe valere proprio il contrario essendo i titoli di Stato originati da un eccesso di spesa pubblica prevalentemente improduttiva. Terzo, la storiella che le aliquote sono state adeguate a quelle europee fa ridere perché da noi esistono anche l'imposta sul bollo e la Tobin tax che rendono la tassazione effettiva ben più elevata. Facendo i «conti della serva», si scopre che con l'aliquota sul cosiddetto capital gain al 26%, in realtà l'esborso reale del risparmiatore arriverà nella migliore delle ipotesi almeno al 36%, cioè il più alto d'Europa. Se un contribuente ha investito 100mila euro e ha un capital gain di duemila euro lordi, in realtà il netto è molto meno: 200 euro se ne vanno con la patrimoniale sul conto di deposito (imposta del 2 per mille), mentre altri 520 si pagano per la tassazione al 26%. Rimangono, netti, 1.280 euro, una cifra che è pari al 64% del guadagno lordo: vale a dire che il fisco si mangia il 36%. Quarto, sembra che si crei un disallineamento tra grande e piccolo risparmiatore, paradossalmente in direzione esattamente contraria a quella desiderata dal premier: in caso di riscossione di un dividendo o plusvalenza il possessore di partecipazioni non qualificate di una società (persona fisica che detiene una percentuale di voto pari o inferiore al 20%, che scende al 2% in caso di società con azioni quotate), si troverebbe a pagare in misura maggiore di colui che ha una partecipazione qualificata (l'investitore presumibilmente più «ricco»). Quinto, perché l'aliquota era del 12% fino al 2011, è stata già aumentata poco tempo fa al 20% ed ora arriva al 26%. Sesto, perché sono inaccettabili le osservazioni del Pd Taddei secondo cui l'aggravio sui conti correnti equivale al costo di un caffè. Sarà.

Ma il caffè, caro Taddei, bisogna farselo cortesemente offrire, non estorcerlo con l'imposizione fiscale.

Antonio Salvi, preside facoltà di Economia Università Lum - Jean Monnet

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