Alla fine ha vinto il ministro Colbert, uno dei «padri» dello statalismo europeo di destra e di sinistra. La vecchia Francia, da sempre innamorata del potere sovrano, ha imposto la sua legge e nella trattativa tra Europa e Stati Uniti per la costruzione di un'area di libero scambio i negoziatori di Bruxelles non potranno discutere di industria culturale. L'amministrazione Hollande vuole difendere lo status quo, fatto di divieti a carico delle televisioni (le quote di trasmissioni riservate a produzioni europee) e di denaro sottratto ai contribuenti per finanziare cinepanettoni e autori radical-chic.
A Parigi la chiamano «eccezione culturale», ma al di là delle formule questo atteggiamento è la riprova che la società europea sa solo gestire il proprio declino, incapace di fare di più e meglio di quanto avviene oltre Atlantico. Pochi sembrano capire che una cultura che alza una muraglia attorno a sé ha già perso, e che questo è tanto più vero per l'Europa, che è stata grande quando è stata capace di recuperare Aristotele dai filosofi arabi, d'intrecciare elementi occidentali e orientali nelle architetture di Venezia, d'innestare Chopin e la musica balinese nei pezzi per pianoforte di Claude Debussy.
Naturalmente, nel giustificare questa decisione si usano vari argomenti. In particolare, i francesi vorrebbero farci credere che le loro produzioni sarebbero di qualità e quelle americane, al contrario, robaccia. Ovviamente tutti sanno che Terrence Malick, Clint Eastwood o Francis Ford Coppola sono statunitensi, ma la tesi che si vuol far passare è che l'Europa sarebbe colta e l'America volgare, ignorante, commerciale. E soprattutto si sostiene che legislazione e redistribuzione debbano essere usate per forzare gli spettatori a sostenere registi e produttori europei, invece che americani. C'è però anche altro.
I difensori di questo Vecchio Continente dominato da regolazione minuziosa e tassazione da rapina sono animati da una forma di idealismo. L'Europa sta morendo di troppo Stato, ma purtroppo questo avviene perché è prigioniera di vizi da cui non sa liberarsi. Non si tratta, insomma, solo di interessi.
Usando il gergo più classico dell'anticapitalismo di maniera («la cultura non è una merce») i difensori dell'eccezione europea ci dicono che l'arte è un affare di Stato: che deve essere controllata e selezionata. Ma quando lo scambio dei prodotti culturali è sottratto alle scelte di tutti noi, c'è da chiedersi se si è ancora in una società libera. E d'altra parte va detto che ogni Stato è sempre attirato dall'idea di finanziare la cultura di regime, e che quest'ultima a sua volta ama essere protetta e foraggiata. In fondo, tutto questo è possibile perché nessuno si scandalizza quando le nostre libertà vengono violate. Il protezionismo è una limitazione dell'autonomia personale: con le loro decisioni, in effetti, gli uomini di potere vengono a interporsi tra noi e l'universo dei prodotti artistici, favorendo Paolo Sorrentino e Bertrand Tavernier per penalizzare Spike Lee e Steven Soderbergh, ma in tal modo è la libertà di scegliere che viene sacrificata.
Che ne deriverà? Con ogni probabilità, poiché anche l'America del democratico Obama è ben lungi dallo sposare il libero mercato, all'ostilità verso i prodotti culturali americani si risponderà con chiusure analoghe: in settori come il navale o l'agroalimentare. Se gli europei sbarrano la strada ai film, gli statunitensi introdurranno dazi sul vino, sul formaggio o sulle barche a vela. Questo è grave: e non solo perché impedisce quell'ampliarsi degli scambi che può creare nuovi posti di lavoro e favorire l'uscita dalla crisi. Oltre a ciò, bisogna ricordare come il protezionismo ostacoli l'integrazione delle società.
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