I GUAI DEI DEMOCRATICI

Qualcuno poteva non sapere, qualcun altro no: doveva sapere. È una storia eternamente dibattuta dai tempi di Mani pulite, una questione che torna ora prepotente a proposito della Tangentopoli che parte dalla Sesto San Giovanni di Filippo Penati e accerchia il Pd di Pier Luigi Bersani. Il sindaco di Napoli Luigi De Magistris rompe gli indugi e punta il dito senza esitazioni. «Bersani non poteva non sapere». All’inizio dell’inchiesta, come ricordava nei giorni scorsi Giorgio Bocca, Bersani aveva annunciato querele a raffica e Bocca si era ben guardato dalla scrivere sull’argomento. Silenzio. E un clima generale di attesa. Ma l’inchiesta è ormai un grappolo di notizie di reato che vanno in molte direzioni. Difficile troncare, sopire come avrebbe detto il Conte Zio dei Promessi sposi. Al quartier generale del partito continuano a sbandierare una diversità etica che avrebbe radici profonde, radicate nella storia del vecchio Pci, ma ormai la questione morale è esplosa. L’altro ieri è Antonio Di Pietro a porre il problema etico e a riassumerlo con un’immagine ruvida ma efficace delle sue: «Se una nave va a sbattere contro gli scogli sarà pure colpa del nostromo, ma la responsabilità oggettiva se la prende il comandante».
Insomma, quel che è accaduto a Sesto, un tempo la Stalingrado d’Italia, sarà pure colpa - sempre che le accuse siano dimostrate - di Penati, ma Penati era troppo vicino a Bersani, era il capo della sua segreteria fino alle improvvise e in parte inspiegabili dimissioni a novembre, e dunque il segretario del Pd non può chiamarsi fuori da questa storia. È esattamente il concetto che De Magistris ripropone in un’intervista a Concita De Gregorio per Repubblica. «Mi irrita la sorpresa - spiega il sindaco di Napoli - che mostrano i leader di partito di fronte ai casi Bisignani, Penati e quant’altro. Penati era il capo della segreteria di Bersani. Bisignani l’uomo di fiducia di Gianni Letta a Palazzo Chigi. I leader sanno sempre benissimo quel che accade nel loro cerchio stretto». Una zampata che lascia il segno.
Del resto il tema è di quelli che fanno scintille solo a sfiorarlo. È vent’anni, dalle manette a Mario Chiesa il 17 febbraio ’92, che le indagini si susseguono con risultati alterni e sconcertanti per l’opinione pubblica: ci sono leader che sono stati circondati dai pm ma non hanno avuto nemmeno la seccatura di un avviso di garanzia, altri che sono stati sommersi da provvedimenti giudiziari di ogni genere. Due pesi e due misure? Bettino Craxi viene travolto proprio dall’arresto di Chiesa. Nel giro di qualche mese il Pool di Di Pietro arriva direttamente a lui e lo inchioda alle sue responsabilità oggettive. Le valigette che la sua segreteria e i suoi uomini di fiducia smistavano nell’ufficio di piazza Duomo 19 gli vengono addebitate come il conto al ristorante. Per Craxi è la fine della carriera politica. Per lui, ma non sempre. Mani pulite lambisce la Fiat, più di un alto dirigente resta impigliato nella rete dei magistrati. Al processo Cusani viene evocata pure una banca svizzera che sarebbe servita alla casa automobilistica torinese per pagare oboli al potere politico, ma gli Agnelli, veri monarchi, restano al di sopra delle nuvole e del temporale. La famiglia passa indenne attraverso il falò di Mani pulite.
Capita. Qualche volta. Agli Agnelli e ai vertici di Botteghe oscure. Mani pulite fa a pezzi la Dc e Arnaldo Forlani, la bava alla bocca, subisce un penoso interrogatorio da parte di Di Pietro; il Psi viene decimato insieme agli alleati laici, il Pci-Pds invece si salva. Il Pool scopre che a Botteghe oscure è arrivato un miliardo gentilmente omaggiato dal gruppo Ferruzzi. I pm seguono l’odore di soldi, ma le tracce svaniscono proprio dentro la sede del partito. A chi è andato quel tesoretto? Si punta sui massimi dirigenti del partito, ma nel dubbio, fra un nome e l’altro, ci si blocca. Sapevano, ma non è detto che tutti sapessero, quindi alla fine nessuno sapeva. Resta orfano anche il miliardo e duecento milioni che attraverso le commesse Enel viene indirizzato a Primo Greganti e finisce sul conto Gabbietta. Anche questa volta il salto di qualità non c’è. Un teorema ultragarantista mette il lucchetto all’inchiesta. Il catenaccio viene tolto quando sulla scena compare Silvio Berlusconi. Per la procura il Cavaliere sapeva. Sapeva delle tangenti pagate dalle sue aziende alla Guardia di finanza; sapeva dell’affaire Lentini; sapeva della compravendita non a regola d’arte dei terreni di Macherio; sapeva dei falsi in bilancio e delle mazzette per corrompere un giudice, sapeva sempre, sapeva tutto. Sapeva quel che succedeva in tutte le province dell’impero Fininvest. Sapeva prima, quando era a capo della Fininvest. E sapeva dopo, quando ormai aveva lasciato il bastone del comando.

Una raffica di assoluzioni dimostrerà nel tempo che le cose non stavano così, ma intanto dal ’94 Berlusconi entra in numerosi fascicoli processuali e deve difendersi. Altri, per questa o quella ragione, restano miracolosamente immacolati. Oggi De Magistris guarda a Roma e sostiene che quella veste non è candida: «Bersani non poteva non sapere».

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica