Ci sono due notizie fra loro in contrasto. I disoccupati toccano i 3,5 milioni ma la Borsa di Milano ha guadagnato da metà luglio il 14,5%; I nostri mutui sono i più cari d'Europa, mentre lo spread è sceso a 231 punti, il minimo da due anni. Il che fa guadagnare parecchio a chi detiene Btp, come le banche che ne hanno 300 miliardi. Infatti 50 punti di riduzione dello spread dal livello medio di 290 di qualche mese fa corrispondono a un aumento del loro valore di mercato del 15%, cioè 45 miliardi.
La riduzione dello spread, per le banche, è una benefica rugiada, che le fa respirare. Lo è ancor più per lo Stato che vede ridursi il costo del debito e per le imprese importanti che possono finanziarsi sul mercato e in banca a migliori condizioni. D'altra parte i bilanci di molte imprese migliorano perché hanno alleggerito la manodopera esuberante o la fanno pagare alla cassa integrazione. E ora che la recessione sta terminando, anche quelle che esportano hanno di che rallegrarsi. Ma accanto a questo mondo ci sono tante, troppe imprese che restano in crisi. Soprattutto, soffrono l'industria edilizia e delle costruzioni, dove si è creato il maggior numero di disoccupati. E quelle connesse, come l'arredamento.
Lo spread è sceso nonostante la condanna (priva di base nella legge fiscale penale) di Berlusconi perché non c'è una crisi di governo. È basso perché il deficit è sotto il 3 per cento. Però ciò è stato conseguito con l'aumento dell'Iva, con l'Imu del 2012 e la riduzione delle spese pubbliche di investimento. Esattamente quello che ha fatto cadere l'industria delle costruzioni e bloccato il mercato immobiliare. Allora la domanda è: come far beneficiare del ribasso dello spread quelli che più hanno contribuito ad abbatterlo, col loro sacrificio, come contribuenti e come vittime della riduzione dei costi del lavoro tramite licenziamenti e cassa integrazione? La risposta si articola in due capitoli.
Per la finanza pubblica riguarda, essenzialmente, il settore edilizio, il più martellato e che ha la maggior funzione nelle politiche anticicliche perché ha più alta intensità di lavoro, con un maggior moltiplicatore della domanda e un minor coefficiente di importazione. È una terapia non solo per Keynes, ma anche per Einaudi e per Ropke, liberali puri. Con la differenza che Keynes voleva finanziarlo in deficit anche scavando buche e costruendo piramidi inutili, mentre gli economisti liberali dicono che bisogna spendere in cose utili senza compromettere il bilancio.
Ci sono i fondi europei cui abbiamo già rinunciato, per opere appena iniziate e bloccate come quelli per il Ponte sullo Stretto, che non si fa, perché «lo voleva Berlusconi» o ritardate come quelli per la Tav, che saranno erogati con anni di ritardo. Ma ci sono anche fondi europei disponibili non spesi: 31 miliardi fra ora e il 2015. Per il 2013 abbiamo speso solo 1,8 miliardi in 7 mesi, il 27% del totale, ne restano altri 4,8. Sono ferme, fra le grandi infrastrutture, per ragioni burocratiche, la statale Jonica 106 ad alta valenza turistica, il porto di Augusta, la velocizzazione della Catania-Siracusa, il polo fieristico di Napoli, gli adeguamenti della Bari-Taranto e molte opere minori. Oltre all'edilizia pubblica, c'è quella privata bloccata dall'Imu su prima casa e dal fatto che sugli immobili dati in affitto, oltre all'Imu, c'è un rincaro del 10% dell'imposta sul reddito, dovuto al taglio dal 15 al 5% della detrazione forfettaria per spese. Lo Stato ci «guadagna» in teoria 300 milioni, ma ne perde di più, a causa del mercato bloccato.
Il secondo capitolo è la produttività. L'export è aumentato, ma meno che in Spagna e Portogallo. Ora esso è il 30% del nostro Pil; in Germania è il 50 per cento. La crescita dell'export va sorretta con iniziative per la ricerca di nuovi mercati e crediti speciali, ma c'è, soprattutto, la questione della produttività e dei tempi di consegna. Le fabbriche di auto degli Usa ora, come si legge nel Wall Street Journal, lavorano giorno e notte, feste comprese, utilizzando al massimo gli impianti.
Ci sono state, da noi, nel Ferragosto, imprese che hanno lavorato perché non dappertutto operano i veti di Cgil e di Fiom.Urge generalizzare questa pratica. Ciò aumenta il rendimento degli investimenti e il reddito dei lavoratori e genera una maggior domanda interna, insieme al maggior export. Lavorando di più, si lavora tutti.
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